Perché i lavoratori culturali digitali hanno bisogno di un sindacato

Lucius Cabins ha un brutto carattere, è scontroso, cerca sempre la maniera di lavorare il meno possibile o aumentare le interazioni con i propri colleghi, concedendosi spazi di pausa o ritardi in maniera abbastanza arbitraria. Lavora da quando aveva 14 anni: caddy in un club di golf, fornaio, imbianchino, magazziniere, e poi man mano che guadagnava competenze tecnico-informatiche si è spostato verso l’elaborazione di testi e poi la grafica. L’hanno licenziato un paio di volte, prima per una lettera non gradita di richiesta di aumento, poi per un volantino diffuso in ambiente di lavoro su cui aveva scritto un finto annuncio pubblicitario in cui scimmiottava l’azienda. Dopo il “massacro del lunedì mattina” che a giugno del 1983 mandò in bancarotta gli hacker della Pacific Software, decise di godersi la disoccupazione, iniziando poi una carriera da libero professionista.

Che significa fare la data scientist oggi? Vuol dire essere sfruttati e avere bisogno di una organizzazione sindacale.

Quella di Cabins è soltanto una delle tante esperienze, talvolta ironiche e talvolta tragiche, raccontate in Processed World, rivista scritta e diffusa da lavoratrici e lavoratori di San Francisco dal 1981 al 1994. Come riportato nella prefazione all’antologia Ribellione nella Silicon Valley, edita da Shake, che raccoglie pezzi tradotti dalla fanzine, Processed World è “uno dei primi tentativi al mondo di descrivere non solamente il problema della tecnologia e del suo possibile ribaltamento in senso liberatorio, ma anche di raccontare i soggetti al lavoro – con le loro ansie, speranze, progetti e analisi – del nascente ciclo del terziario avanzato”. Un progetto di inchiesta nel quale già si leggono le riflessioni sulle micropolitiche dell’ufficio, la gamification della logistica, ma anche i dubbi sull’intelligenza artificiale, la politicizzazione della programmazione informatica e le applicazioni delle tecnologie nell’urbanistica. A colpire, poi, è la vasta gamma di forme occupative raccontate, dal fattorino alla reception, dal programmatore al magazziniere, tutte accomunate da simili sensazioni rispetto il rapporto sul luogo di lavoro, e verso il fascino della nuova gold rush dell’informatica.

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Ma leggendo Processed World c’è un pensiero che mi tornava in mente: la mancanza e l’importanza che avrebbe una cosa simile se fatta oggi. Lavorare da programmatore, sviluppatore o analista oggi già può significare in realtà una gamma di situazioni e condizioni completamente diverse tra loro: lavoro in ufficio, da casa, da autonomo, ma anche da ricercatore accademico, se consideriamo come denominatore comune l’attività di ricerca e sviluppo che quasi quotidianamente, anche se reindirizzata in fini direttamente commerciali, svolge a lavoro un informatico.

E allora qui, a mio avviso, già emerge un nodo da sbrogliare quando si vuole trattare della sindacalizzazione o perlomeno delle forme di solidarietà che si possono sviluppare nel lavoro digitale, cioè l’identificazione della categorie a cui si fa riferimento.

Il capitale digitale si regge su una catena di montaggio che rischia di essere sempre più invisibilizzata dalla distribuzione che ha sul pianeta e per le differenti forme di occupazione coinvolte.

Come analizzato in maniera approfondita da Antonio Casilli in En attendant les robots: Enquête sur le travail du clic, recentemente tradotto e pubblicato in Italia come Schiavi del clic, il capitale digitale si regge su una catena di montaggio che rischia di essere sempre più invisibilizzata dalla distribuzione che ha sul pianeta e per le differenti forme delle occupazioni coinvolte. Si va dai microworkers che taggano e classificano dati utili per le fasi di addestramento delle intelligenze artificiali, ai settori della logistica, agli sviluppatori di piattaforme e i data scientist fino agli esperti di machine learning. Se da un lato è importante costruire confronti e percorsi comuni tra più categorie, dall’altro è anche utile scendere nei specifici settori quando si tratta di voler evidenziare le particolarità, quindi le specifiche condizioni non solo di lavoro ma di approccio con la tecnologia, di necessità, di contraddizioni.

Oltre alle lotte e agli spazi costruiti in questi anni attorno alle rivendicazioni dei riders, negli ultimi anni si sono creati gruppi telematici per riunire lavoratrici e lavoratori tecnologici, come Tech Workers Coalition Italia, che propone canali di discussione e gruppi di lavoro tematici. La strada è lunga, e processi di solidarietà sono spesso limitati dalla forma individualizzata del lavoro digitale.

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Sull’industria dell’informazione, dei dati e dell’intelligenza artificiale è investito un capitale sempre maggiore, sia da parte di privati, che da settori pubblici e accademie, consentendo in questa fase sempre più possibilità in questi settori.

Per chi si laurea nel 2020, credo sia fuori discussione che in termini puramente statistici, saper programmare o avere competenze minime di sviluppo software comporti un sostanziale aumento delle opportunità lavorative. Negli ultimi anni abbiamo assistito, anche in questa ottica puramente occupazionale, a una “informatizzazione” dei percorsi di studio accademici, che anche in sedi umanistiche spostano didattica e ricerca verso i temi digitali, ma abbiamo anche visto un’apertura dei dipartimenti di Informatica verso un accesso più ampio a particolari corsi di laurea, pensiamo per quanto riguarda l’Italia all’esplosione delle lauree magistrali in Data Science.

Per chi si trova in una situazione di competenze tecnico-scientifiche accumulate durante gli studi, considerando l’attuale fase di crisi globale, è chiaro che questo bagaglio è uno strumento cruciale nel tentativo di trovare una forma di retribuzione. Il primo dilemma, solitamente, è tra accademia e azienda, quindi tra concorso di dottorato e candidatura su Linkedin.

Emerge l’intenzione di provare ad immaginare una terza via: quella che potremmo definire cooperativa

Per come versa la ricerca e l’università, la prima strada spesso è una parentesi di quattro anni o poco più, che rimette poi il/la tesista allo stesso bivio già visto, ovviamente con conoscenze e titoli in più. Nel caso quindi altamente probabile in cui non si trovi un’occupazione stabile nella ricerca, ci si ritroverà a un certo punto a candidarsi in quella o quell’altra start-up come analista di dati o sviluppatore di intelligenza artificiale.

“La data science è una bolla.” Chi non l’ha mai sentito dire? E soprattutto, come non si può che essere d’accordo? Su alcuni campi dell’informazione, come dicevamo a inizio paragrafo, c’è evidentemente un interesse del capitale globale, nella creazione di sistemi automatici di riconoscimento immagini, così come nel campo del Natural Language Processing, cioè la capacità di un computer di capire e produrre linguaggio naturale umano.

Spesso le aspettative di un aspirante data scientist possono essere alte, e magari influenzate anche dal fascino per l’intelligenza artificiale suggestionata da tutta la fantascienza, da Asimov a Westworld. Ci si potrebbe aspettare quindi di diventare degli apprendisti Robert Ford, che progettano narrative e personalità agli androidi del futuro. E in effetti, un po’, in realtà lo è. Ma poi arriva lui, il paese reale. Il cliente.

La percezione di essere inessenziale può essere molto frustrante, anche se a tratti ironica, quando ti trovi a dover applicare le tue approfondite conoscenze di reti neurali profonde a un tentativo di previsione del numero di confezioni di biscotti sugli scaffali del prossimo mese.

Prima di discutere delle possibilità di un lavoro diverso, rispetto le forme contrattuali, collaborative o meno, retributive, allora vale forse la pena ragionare, o perlomeno iniziare a farlo, su quanto non lasciarsi affascinare da una bolla economica pur riconoscendone l’importanza e l’utilità pratica di una tale circostanza in termini di reddito. In altre parole: che fare di un decennio di conoscenze accumulate sulle più recenti e innovative tecnologie a disposizione? E che farne eventualmente insieme?

In un articolo sul New Yorker del 2014, The Socialist Origins of Big Data, Evgeny Morozov ripercorre la storia del Progetto Cybersyn, un ipermoderno sistema di controllo basato su analisi dati progettato dal governo socialista di Allende. Quattro schermi che dovevano mostrare il Datafeed, una serie di grafici e statistiche riguardo la produzione, utile a supportare il Cyberfolk, un ambizioso piano di monitorare costantemente gli umori del popolo tramite quello che si può definire effettivamente un antenato della sentiment analysis utilizzata ora dai consulenti dei partiti politici nelle campagne elettorali. Citando dal finale del lungo articolo di Morozov, “il problema dell’utopismo digitale di oggi è che in genere inizia con una diapositiva di PowerPoint nella presentazione di un venture capitalist.”

Hopping e freelance o fare le cose insieme?

Una volta assunti in un’azienda di informatica, dopo la prima settimana di eventuale entusiasmo, è riflesso abbastanza normale e diffuso chiedersi quanto convenga stare lì. Certo, questa non è prerogativa delle occupazioni del mondo dell’informazione, ma basta fare una ricerca sui grossi siti di annunci di lavoro per rendersi conto, più all’estero che in Italia, che il passare di frequente da un lavoro all’altro, per ottenere salari migliori (job hopping), in questi settori è qualcosa di molto diffuso, e anzi in un certo senso stimolato dal mondo lavorativo stesso. Così come laurearsi conoscendo il linguaggio di programmazione Python è un aspetto intercettato dal business, un’esperienza di un anno come sviluppatore di algoritmi di apprendimento artificiale ricollocano la figura professionale in maniera considerevole. Il risultato non può che essere una via di mezzo tra il far-west e l’asta al mercato del pesce, che per una persona non abituata alle dinamiche e alle retoriche di imprenditoria del sé può anche trovare in un certo senso spiazzanti. Oppure l’alternativa è fare come Lucius Cabins, e a un certo punto iniziare a lavorare come freelance, magari approfittando della vasta quantità di portali oggi utili a fare da intermediario.

Sindacalismo sociale e invenzione di nuove forme lavorative possono rafforzarsi a vicenda

Parlando con amiche e compagni che hanno esperienza nei settori, e qui mi rivolgo al settore dell’informazione esteso, quindi includendo anche l’apparato tecnico, logistico e gestionale, emerge a volte l’intenzione di provare a immaginare anche una terza via oltre all’assunzione aziendale e quella da freelance: quella che potremmo definire cooperativa.

In forme tutte da definire e forse ancora da sviluppare, è possibile immaginare un modo di mettere insieme conoscenze, forze e corpi, non solo per liberare le giornate dal lavoro salariato ma anche per costruire progetti utili alla comunità?

Sempre sul sito di Tech Workers Coalition Italia è possibile trovare una lista di organizzazioni e collettivi distribuite in tutto il mondo, ma anche in Italia, che provano a reinventare il lavoro culturale e digitale e le forme che questo si dà. Si va dai temi della didattica alla produzione artistica, dallo sviluppo web ai gestionali per ONG, e le forme di ingresso possono essere più orientate verso prodotti e servizi quanto invece verso il finanziamento tramite bandi.

Personalmente, non credo negli aut-aut. Sindacalismo sociale e invenzione di nuove forme lavorative non mi sembrano affatto in contrasto tra loro, anzi possono rafforzarsi a vicenda. Percorsi collettivi per migliorare le singole vite è uno step sempre più necessario per liberare tempo da dedicare alle sfide sociali, ecologiche e politiche che questi tempi richiedono.


Immagini di Davide Bart. Salvemini