Buon Natale del pensiero magico

Questo è il primo Natale che non passerò lungo il Po, il primo in 38 anni. Sono agnostica, da nove anni sono orfana, sono figlia unica. La vigilia di natale, da quando sono ragazzina, la passiamo in un pub lungo la strada provinciale, zeppo di luci e con i Pogues. Beviamo una birra e ci ritroviamo, pezzi di pianura sparpagliati per l’Europa, a volte per il mondo.

Il giorno di Natale abituale si manifesta in un pranzo dai miei zii (in un numero ammissibile anche con gli attuali decreti) e una visita al cimitero. A dicembre, a Melara, le piante congelano tutte. Nonostante ciò, da nove anni a questa parte, mi ostino a comprare dei bucaneve, che per il loro nome evocativo penso sempre possano sopravvivere alla stagione, alla brina mattutina e al freddo cupo della pianura.

Non si tratta di un Natale da film, magari bellissimo e magico come quello di “Fanny e Alexander” tratteggiato da Bergman, ma di quella presenza che mi restituisce il senso di casa. E quando si dice state a casa, io penso sempre a quella rete di relazioni, spazi, abitudini in tutte le città in cui sono stata e sono, che si sommano e non si sostituiscono.

Ho scelto di non tornare per varie ragioni: proteggere la salute dei miei zii, evitare la frustrazione di non potere vedere gli amici (Melara è al confine tra due regioni, tre province, e quella territorialità poco si addice alle nuove regolamentazioni), non vivere le restrizioni della mia tradizione. Si tratta di una scelta sofferta, così come sono vissute con irritazione e tristezza le decisioni del DL Natale, sebbene io possa capire il senso e l’urgenza politica di adottare tali misure. E lo patisco partendo da una condizione fortunata: non passerò comunque il natale da sola, sono sana, le persone che conosco che si sono ammalate sono riuscite a guarire.

Eppure c’è qualcosa che mi lascia perplessa delle decisioni adottate in questo frangente. Forse perché molto evocata in questi mesi, la metafora bellica della pandemia mi ha fatto ripensare proprio ad un episodio in parte romanzato nella trasmissione orale,  ma avvenuto realmente tra il 24 e il 25 dicembre 1914, come raccontano “Silent Night”, di Stanley Wintraub e “Christmas Truce”, di Malcolm Brown e Shirley Seaton: la tregua di Natale. Il racconto dei soldati inglesi e tedeschi lungo il fronte occidentale narra di come la notte della vigilia fossero comparse delle luci, impensabili in precedenza perché fonte di pericolo. Aguzzando la vista nella notte, pare che i soldati avessero visto la trincea illuminata per una serie di piccoli alberi di natale. Il gesto era stato accompagnato da una serie di canti, e il giorno successivo i soldati avevano concordato una tregua, durata ventiquattro ore, in cui erano stati sepolti i morti, giocate alcune partite di calcio, e celebrata la vita, in un momento di angoscia e paura.

Sono convinta che sia sbagliato l’utilizzo della metafora bellica per raccontare l’anno che si sta per concludere, ma credo che i due campi semantici condividano un tratto comune, ossia il lutto e la sofferenza collettiva, e che questa esperienza dovrebbe imparare dalla precedente nell’attingere nel campo delle possibilità, quel campo in cui i simboli, i riti e i gesti possono avere un valore altrettanto rilevante, e portare benefici quanto le scelte razionali.

Proprio il mondo del sentire, che si oppone a quello del capire, è protagonista di un libro ambientato proprio in questi giorni di dicembre. È “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion, in cui la scrittrice si trova a dover fare i conti con la perdita improvvisa del marito John Dunne e la malattia della figlia Quintana, in coma negli stessi momenti della scomparsa improvvisa del padre.

Il libro ruota attorno ad una domanda: Come è potuta accadere una cosa simile quando tutto era normale? Una domanda che Didion si pone e che ci siamo posti ripetutamente, a cui è seguito un interessante controcanto politico: Non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema. Didion prova a rispondere, dicendo Come andrà? Andrà per il meglio perché deve andare per il meglio. Un mantra che evoca facilmente la formula Andrà tutto bene, sventolata alle finestre per tutta la prima ondata, e silenziata nel corso della seconda, proprio perché non più credibile.

L’insopportabilità del dolore porta Didion ad appellarsi al pensiero magico così come definito dall’antropologia culturale, per provare a ricomporre ciò che il lutto ha indissolubilmente incrinato. Siamo esseri umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto.

Finché la scrittrice afferma: Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva, e forse è proprio il dolore, in varie forme, a segnare questi giorni di fine anno.

Sebbene non tutti, fortunatamente, abbiano dovuto fare i conti con la perdita diretta in quest’ultimo anno, sicuramente tutte e tutti siamo stati esposti ad un dolore collettivo, più o meno accettato. Tutti abbiamo tentato in qualche misura di appellarci al pensiero magico nei giorni tutti uguali dei mesi passati (di certo io l’ho fatto), per ritornare a ciò che non siamo più, per provare a riportare indietro una normalità, fatta di incontri, uffici, scambi, contatti, abbracci. É quel tipo di formula che adottiamo per decidere se fidarci degli incontri, come scegliere gli amici, come adeguare le nostre relazioni, che ci spinge a bere caffè d’asporto, a ritrovarci quando possibile, a stare nello spazio pubblico più a lungo e più frequentemente di prima. Si tratta di un pensiero magico, perché è il pensiero della morte stesso, della nostra e di quella delle persone care, ad essere impensabile, soprattutto quando questo accade per davvero.

Così, tendiamo a ricomporre le forme di normalità, le abitudini, i libri, i piccoli tic del quotidiano, per evitare che gli eventi infausti si ripetano, che quell’alterazione possa ritornare, che la sofferenza ci sottragga qualcosa in più, oltre alla perdita, anche la normalità. Questo tipo di gesti, hanno anche una funzione ulteriore, che si somma a quella apotropaica: sentirsi in vita, finché c’è quel margine.

Una magia che si amplifica in presenza di rituali consolidati, ripetuti, che hanno la funzione di rassicurare e di andare a colmare quella sfera di bisogni che non attingono alle necessità vitali, ma che riempiono la dimensione dell’umano. Sono i “bisogni radicali”, così come enunciati dalla filosofa Ágnes Heller, che ha esperito quelle urgenze nella sua lunga e vagabonda vita.

Ci sono due aneddoti della sua biografia, che spiegano bene questo processo. Nell’adolescenza, Heller, ebrea, cresciuta a Budapest, si ritrova quindicenne nei giorni dell’occupazione tedesca in Ungheria, nel marzo 1944. «La mattina si seppe dell’occupazione, nel pomeriggio avevo prenotato un posto per un concerto di Stravinskij. Dissi ai miei genitori: ‘Vado al concerto’. Mia madre si infuriò tremendamente e mi disse che ero una pazza a voler andare a un concerto con i soldati tedeschi appena entrati in città. Mio padre replicò: ‘Vai pure’. Lui aveva capito, che fino a quando ero in vita, avrei dovuto sfruttare al massimo il tempo e le occasioni che mi capitavano”.

Il secondo episodio riguarda proprio la sua dipartita. Heller muore novantenne, nuotando nel lago Balaton. Amava l’acqua, il nuotare, e nuotava lontano, a dispetto delle raccomandazioni, dell’età e delle valutazioni dei rischi. I due episodi rappresentano un ottimo sunto del pensiero della filosofa, che ha posto in chiave critica la necessità di perseguire i bisogni radicali per essere davvero liberi.

Heller ha ragionato sulla condizione dello straniero come condizione limite che ci aiuta a comprendere come l’essere in vita sia comunque insufficiente per la pienezza del vivere. Heller parla di una «rivoluzione della vita quotidiana», un cambiamento reale del nostro contesto in cui alla battaglia per la sopravvivenza, si deve affiancare quella per la soddisfazione dei «bisogni radicali», di quei bisogni qualitativi che rendono la vita degna di essere vissuta. Sono i bisogni radicali che ci fanno crescere tanto come cittadini quanto come persone. Sono i bisogni di tempo libero, delle gratificazioni sul lavoro, delle relazioni umane, della non ripetitività dei giorni. Sono i bisogni che permettono una tensione critica, e una spinta aspirazionale ad un cambiamento, in termini di riduzione delle diseguaglianze. Heller, infatti, afferma che una società “sazia” di bisogni radicali non sia davvero un luogo felice, perché senza la tensione si appiattiscono le contraddizioni e le tensioni necessarie.

Nell’anno del pensiero magico siamo passati da una condizione cieca di sazietà ad un governo dei bisogni primari, basato sull’urgenza dello stare in vita, della salute, rispetto a tutte le altre necessità. Una priorità indiscutibile e un trauma così capillare da lasciarci annichiliti. Una perdita collettiva di senso così profonda da evocare i meccanismi di frustrazione reattiva.

Abbiamo assistito ad un ribaltamento di priorità, di prospettive vitali senza che il nuovo ordine simbolico avesse avuto il tempo di modificare il precedente, ma solo sovrapponendosi in controluce, evidenziando tutte le mancanze (attuali e prospettiche) e aumentando, giorno dopo giorno, la consapevolezza dell’inefficacia del pensiero magico stesso, così come la consapevolezza del nostro non essere pienamente liberi, (e forse, non lo eravamo davvero nemmeno prima). Questa consapevolezza ci permette forse di dire che non c’è davvero una ricetta che avrebbe migliorato le feste.

Qualunque scelta per questi giorni sarebbe stata infelice, proprio perché nessuna scelta possibile avrebbe potuto riportare le cose ad un prima, a quell’ingenuità del quotidiano. Eppure, il pensiero magico ci appare così efficace nell’invisibilità di queste morti senza funerale, senza malattia, solo un prima e un dopo. Per questo il rito che manca, quel rito ripetitivo e sempre uguale a se stesso com’è il natale, assume un valore simbolico ancora più forte nella sua assenza, nelle modificazioni radicali di quest’anno. Perché ci obbliga a fare i conti con un presente, con la nostra mancata sazietà di bisogni radicali: gli amici, gli amori, i concerti, i film, i teatri, fare tardi, vedersi in gruppo, spostarsi, incontrarsi, sfiorarsi. Ci rivela, inoltre, uno spazio sociale più ingiusto, in cui i nostri stessi bisogni sembrano superflui, quando lo stare a casa non diventa più possibile, quando anche i bisogni primari vacillano, sotto il peso della recessione incombente.

C’è la necessità, e c’è un conflitto. Un conflitto che, volenti o nolenti, ci restituisce il nostro stare nel mondo, pur restando a casa e una normalità non desiderabile, non per tutti, non così. Quella capacità di illuminare il mondo descritta da Arundhati Roy, che rivela tutte le sue contraddizioni. Ma vederle, e pensarle, e soffrirle, è, secondo Heller, l’unica forma della vita sensata.

L’individuo che vive secondo un senso non è una sostanza chiusa, ma una sostanza in sviluppo che ritiene perennemente conto dei nuovi conflitti del mondo – del grande mondo – e (anche) in questi dispiega – illimitatamente – la propria personalità. I limiti di questa vita sono dati soltanto dalla morte. Solo una tensione aperta verso la felicità, coscienti della propria condizione presente, permette alle persone di fare primavera e scalzare il ghiaccio dell’inverno del potere oppressivo e violento. Un fare primavera, che è forse una delle più poetiche definizioni di libertà proposte dalla filosofa ungherese, e un augurio che oggi appare come un bisogno, tanto più necessario, quanto radicale.