Il paradosso delle privatizzazioni italiane: piccolo non è bello, ma grande non funziona

Tra i messaggi nella bottiglia che ci ha lasciato Marcello De Cecco, scritti col suo stile inconfondibile, c’è il seguente, datato 2013: «Noi siamo stati a lungo, e incomprensibilmente continuiamo ad essere, orgogliosi di un tessuto industriale parcellizzato, quello delle Pmi. Siamo stati così bravi a venderlo – il capitalismo dal volto umano e altre scemenze – che anche Clinton veniva a Modena per studiarlo. Salvo poi continuare, loro, a puntare sulla grande industria. Come si può competere nella globalizzazione con unità produttive da una dozzina di persone?».

Ponendosi nel solco di De Cecco, Ugo Pagano ha scritto su «L’industria» un articolo molto significativo sull’economia italiana, che fornisce un’interpretazione del ruolo delle privatizzazioni nella nostra storia recente e offre alcuni spunti per il futuro.

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Nel dibattito che si sviluppa in Italia tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, e che si interseca con la fine della guerra fredda, alle privatizzazioni viene riservato un ruolo di primo piano. A un grande piano sulla riduzione della presenza pubblica nell’economia, più volte discusso in ambito politico e istituzionale, sono affidati vari compiti: dall’abbattimento del debito pubblico al miglioramento dell’efficienza del sistema produttivo. Non solo.

C’è qualcosa di più. Nella visione dei decisori più influenti dell’epoca, a partire da Guido Carli, le privatizzazioni rappresentano un traguardo non solo operativo, ma morale: la fine dell’intermediazione tra lo Stato e i mercati avrebbe portato al superamento dei fenomeni più gravi di corruzione. Le privatizzazioni sono parte essenziale del vincolo esterno: l’unica strada considerata possibile per salvare l’Italia, ancorandola strettamente a una prospettiva europea.

Parallela a questa chiave di lettura enfatica, se ne sviluppa un’altra, che è ancora con noi a un trentennio dal Rapporto Scognamiglio: le privatizzazioni come grande complotto, saccheggio definitivo delle capacità dell’economia italiana per l’arricchimento di pochi. Da un lato, dunque, la vendita di imprese pubbliche come unica via di fuga dall’inferno. Dall’altro, il ratto del nostro paradiso, per sempre perduto.

Qual è il fenomeno più interessante, nella tipologia di purgatorio in cui viviamo, a distanza di trent’anni? Seguendo Pagano possiamo definirlo il paradosso delle privatizzazioni: la rivalutazione del ruolo delle imprese controllate dallo Stato, ovvero le grandi imprese quotate in cui lo Stato ha mantenuto una quota di controllo.

Pagano ricorda il monito di Marcello De Cecco sulle privatizzazioni nel 2000: il grande economista e storico italiano puntava l’attenzione sul rischio di indebolimento delle grandi imprese industriali, già ridotte rispetto ad altri paesi. Pagano ricorda quanto non vi fosse, trent’anni fa, una piena contezza dell’importanza della grande impresa nella competizione globale. Al contrario, vi era un’opinione diffusa che la nuova economia della conoscenza avrebbe rafforzato il modello della piccola impresa, l’influenza del paradigma piccolo è bello.

L’illusione dell’eccellenza di quel modello italiano dura poco, mentre l’avanzare del paradigma della microelettronica e delle telecomunicazioni nella new economy favorisce imprese di grandi dimensioni e capacità di aggregazione.

Così la nostra economia, osserva Pagano, «è finita in un’instabile limbo», sospesa tra i paesi caratterizzati da processi produttivi ad alta intensità di conoscenza e quelli con un basso costo del lavoro. Anche per il sistematico disinvestimento in formazione e ricerca, da parte pubblica e da parte privata.

Nell’accrescersi di debolezze che conosciamo (tra cui merita senz’altro attenzione la questione demografica) avviene tuttavia una paradossale rivincita del modello italiano, nella biforcazione tra le società per azioni (ex enti pubblici) rimasti a controllo statale (come avviene del resto in molti paesi) e le imprese privatizzate che hanno visto un’uscita totale dello Stato.

Pagano ricorda che nelle privatizzazioni di Eni, Enel, Finmeccanica e Fincantieri, che rientrano nel primo caso, lo Stato ha ricevuto risorse dalla vendita di partecipazioni azionarie ma allo stesso tempo ha mantenuto la possibilità di designare il management. «Queste società hanno continuato a crescere, innovare e investire». Invece, le privatizzazioni di Telecom e Autostrade esprimono i limiti del capitalismo italiano.

Il giudizio di Pagano sullo Stato imprenditore, o meglio su quella sua forma che si è manifestata nelle grandi società a partecipazione pubblica quotate in borsa, è molto positivo, in quanto «è riuscito a limitare i danni del nanismo delle nostre imprese private».

Difficilmente questo stesso giudizio potrebbe essere formulato su alcune forme di capitalismo municipale che non hanno innovato e non hanno portato servizi pubblici adeguati. Né può essere condiviso relativamente alla gestione di Alitalia, ovviamente.

Tuttavia, non c’è stato nessun grande complotto che ha riguardato aziende come Eni, Enel, Finmeccanica, generandone la perdita di controllo da parte dello Stato. Ciò non è avvenuto. Inoltre quelle aziende, perlomeno nei loro investimenti in Italia, incontrano problemi di contesto, relativi in particolare ai sistemi autorizzativi, alle capacità di attuazione, all’incertezza del diritto e dei tempi. Non possono disancorarsi rispetto al nostro sistema, non possono costruire veramente uno Stato parallelo, anche se possono subire spinte che le portano a un relativo disimpegno sulla promozione di investimenti in Italia.

Di certo, non possono più rappresentare una riserva occupazionale pari a quella del passato, ma questo è vero per molte altre aziende, pubbliche e private, in un mercato del lavoro profondamente cambiato. In ogni caso, le aziende di questo comparto «non hanno solo resistito, ma riescono ancora oggi a competere con successo sui mercati globali».

Per questo Pagano suggerisce il mantenimento di una forma di controllo statale sulle imprese pubbliche «senza avere l’infondato pregiudizio che si tratti di una forma inefficiente di governo societario», e allo stesso tempo invita a concentrarsi sulle soluzioni per far crescere le medie imprese, portando alcune di esse alla grande dimensione.