Fuori dal comando, dentro la società

società

Ormai sempre più spesso ci si ritrova a discutere dei centri sociali come degli spazi di produzione del comune – in potenza o in atto, a seconda delle esperienze concrete di riferimento. Una produzione abbastanza complessa, che vede nel comune il proprio piano d’immanenza e il proprio modo di produzione. Sulla superficie del piano d’immanenza, come nelle sue pieghe e nelle sue curvature, così durante il ciclo di produzione – dentro cioè la grande miniera produttiva qual è il comune – qui ritroviamo i corpi, i gesti, i linguaggi, le singolarità. La produzione sta nel divenire altro da sé: nel processo costituente che si muove tra la vecchia soggettività decostruita e la nuova soggettività da costruire. Questa discussione non è certo inedita in Italia, è infatti dai tempi dell’Onda – se non da prima – che si dibatte e ci si scontra attorno al nodo della conversione dei cs. Di questo, tempo fa ne ho discusso in un breve articolo, al quale divers* compagn* hanno sollevato una giusta obiezione: come questa produzione potenziale – poiché di potenza si tratta nella maggior parte dei casi – può diventare effettuale senza corrompere la potenza e l’effettualità politica degli spazi? Quesito difficile a cui rispondere su due piedi, osservando unicamente gli spazi liberati e/o occupati come centri sociali. Per questo, si è deciso di osservare il problema da un’altra angolatura, quella cioè di alcuni centri di produzione economica e culturale come La scuola open source di Bari.

Dall’economico al politico

Partendo da una pratica concreta che La Scuola Open Source (da ora SOS) mette in campo e alla prova da due anni, possiamo iniziare a tracciare delle traiettorie che possono aiutarci a rispondere alla giusta obiezione riportata qui di sopra. Infatti, quest’estate si è tenuta la terza edizione di XYZ – un laboratorio di coprogettazione e co-design diviso in tre tronchi: X (comunicazione), Y (strumenti) e Z (processi). E ognuno di questi tre tronchi ha un proprio obiettivo, quest’anno: X (co-progettare identità e sito web), Y (sistema di accessi e internet delle cose), Z (governance dei servizi). L’oggetto di quest’ultima edizione di XYZ è stato l’Officina degli Esordi, un laboratorio urbano nato sei anni fa grazie ai bandi di Bollenti Spiriti – punta di diamante delle politiche giovanili del governo regionale di Vendola. Durante la settimana di lavori, tutti e tre i laboratori hanno provato a rispondere ad un quesito eminentemente politico: come rendere l’Officina degli Esordi il principale hub culturale della città? I ragazzi e le ragazze – più di sessanta unità – hanno cercato di rispondervi, con dispositivi multidisciplinari di ricerca e di coprogettazione: dall’inchiesta sociologica all’indagine digitale, dall’assemblea plenaria alla condivisione degli input fino all’intersezione degli output.

Ma che c’entra tutto questo con un discorso sulla produzione del comune? Nella durata di una settimana, tre laboratori (XYZ) hanno dato vita a tre processi contenenti molteplici altri processi che, giorno dopo giorno e passo dopo passo, si sono intrecciati prima e intersecati dopo, dando alla fine come risultato un assemblaggio mobile e dinamico di diversi progetti con un solo obiettivo comune: rispondere al quesito posto il primo giorno. Un assemblaggio reso possibile da un mutualismo delle competenze, dalla condivisione di storie e immaginari, da un comunismo dei mezzi di produzione (si tratta, qui, banalmente ma non troppo, di macchinari materialissimi: stampante 3D, laser cutter, hardware, ecc.).

Dunque, cosa potrebbe succedere se un processo (dei processi) così organizzato prendesse vita come forma politica dei processi costituenti in diverse città?

Dal co-working al know-working

Parlare de La Scuola Open Source e del suo laboratorio annuale XYZ apre un’altra traiettoria – quella del co-working. Con l’esplosione (e l’inflazione) dei freelancer, dei lavori digitali e della relativa forza-lavoro digitale e non solo, il tema del co-working sembra aver perso la sua ambivalenza politico-economica ed è caduta nei libri di storia come retaggio unicamente neoliberista del mito liberale dell’uomo-che-si-fa-da-sé. Di esperienze specificamente come quella di XYZ non ce ne sono tante (o forse non ce ne sono proprio) in Italia, ma come La Scuola Open Source ce ne sono, eccome. Soggetti economici cioè, che nel costruirsi come processi costituenti all’interno del mercato, ne allargano quotidianamente le maglie del controllo (sul lavoro e sulla forza-lavoro) aprendo possibili spazi di fuoriuscita (dal lavoro).

Sembra che proprio qui dentro il discorso attorno il sindacalismo sociale – discorso, si badi, che è sempre rimasto ancorato ad una dimensione rivendicativa dentro i rapporti economici esistenti – può assumere una pregnanza positivamente ontologica. Infatti, accanto e per la rivendicazione di un reddito di base universale, si inserisce la ricerca di un modo di produzione in cui i rapporti di potere si orizzontalizzino e la moneta diventi dispositivo semiotico di un uso collettivo del lavoro. All’interno di questa matassa, ecco il co-working presentarsi come fortemente ambivalente: dispositivo di isolamento della forza-lavoro e di privatizzazione (temporanea) di uno spazio condiviso o dimensione costituente di uno spazio comune e di una rete liberata di cooperazione sociale. È questa seconda dimensione del co-working che ci interessa particolarmente. Infatti, recentemente Fumagalli è tornato sulla centralità della conoscenza all’interno del motore dell’accumulazione e della valorizzazione capitalistica, attraverso una tassonomia della conoscenza: informazione, conoscenza codificata, conoscenza tacita e cultura.

Mentre le prime due sono l’una «incorporata nell’elemento macchinico» e l’altra può divenire informazione, le ultime possono – l’una – dare «un elevato potere contrattuale» e – l’altra – consentire di «ricoprire la funzione intellettuale». Se, allora, uno spazio di co-working – all’interno, per esempio, di uno spazio liberato – riesce a creare una connessione stretta tra produzione di cultura e trasmissione di conoscenza tacita, ne verrebbe fuori una produzione e una condivisione aperta e accessibile a tutt* di saperi «non immediatamente sussumibil[i] alla logica di valorizzazione capitalistica», che «costituisc[ono] anche l’eccedenza irriducibile al comando» del sistema.

Nel comune l’immanenza, nella cooperazione la forma, nel know-working l’essere

Il problema del Che fare? resta ancora irrisolto: come produrre effettivamente valore, all’interno degli spazi liberati, senza cedere alla valorizzazione capitalistica né farsi capitalisti? Bene, la risposta – ripercorrendo il fiume dal quale siamo risaliti dall’inizio – sta nell’equilibrio di un ciclo (potenzialmente) infinito della ripetizione (sempre differente a sé) della logica Che fare?-making! Sta cioè nel produrre un’osmosi tra la produzione comune di saperi, la costruzione e la condivisione di mezzi di produzione, la circolarità dell’orizzontalità dei rapporti di potere nella valorizzazione del lavoro della cooperazione sociale.

Dunque, la soluzione dell’ambivalenza del co-working – e la risposta al problema a cui stiamo cercando di rispondere – sta proprio nel suo superamento verso un know-working. No, non si tratta di un ennesimo nome per identificare genericamente il lavoro cognitivo, ma di un nome che vuole descrivere tanto l’egemonia del lavoro cognitivo nel pattern ontico della forza-lavoro quanto un’onomatopea: banalmente, know suona molto simile a no. Andando oltre il non-riconoscimento (e rappresentandolo acusticamente) di molti lavori in quanto lavori e non hobby e affini, quel know indica ironicamente anche una fuoriuscita dal lavoro inteso come lavoro comandato e retribuito a valle di una valorizzazione capitalistica del valore-lavoro.


Immagine di copertina: ph. Paweł Czerwiński da Unsplash