Il giornalismo è in crisi, ora serve trasformare il malcontento in partecipazione

Per un giornalista, parlare di giornalismo dovrebbe essere la cosa più facile del mondo. E invece, c’è sempre un quid di reticenza, o meglio di resistenza: la stessa che mi ha portato a procrastinare per vari giorni la stesura di questo articolo.

È una perplessità soggettiva, innanzitutto, una remora: il timore di essere troppo coinvolti, un residuo scrupolo nei confronti di quello che una volta si chiamava conflitto d’interessi, un’eco della massima tramandata dai vecchi maestri per cui “le fatiche del cronista non fanno notizia”, e che decenni di personal essay e gonzo journalism hanno scalfito ma evidentemente non espulso dal super-io.

C’è poi un ostacolo oggettivo: il fatto che per riflettere su noi stessi e la nostra professione, usiamo gli stessi strumenti (la parola scritta o orale) e gli stessi media (testate cartacee e online, blog, radio e podcast, tv e video, social) che usiamo per svolgere la nostra professione; cosa che un ingegnere e un pittore, un musicista o un chirurgo, non fanno. Ci si sente un po’ come il fotone della meccanica quantistica, che illuminando ciò che deve studiare, siccome ne condivide la natura, inevitabilmente lo distorce.

Il risultato? I due estremi: o una eccessiva timidezza, il relegare macro questioni nelle 15 righe di comunicato del C.d.r. a pagina 42; oppure una esagerata autoreferenzialità, che allargando troppo il discorso lo annacqua, e contemporaneamente rende ancora meno credibile la categoria.

Ogni tanto di giornalismo e giornalisti tocca parlare

Eppure, ogni tanto di giornalismo e giornalisti tocca parlare: se non altro perché sono una categoria di lavoratori come un’altra; e pure perché hanno un ruolo fondamentale nelle democrazie, ma anche nelle autocrazie, e insomma anche quelli che il giornalismo non lo fanno, almeno lo usano, o lo subiscono.

Tutta questa premessa non valga come disclaimer – leggi “mettere le mani avanti” – ma come spiegazione di non aver iniziato questo articolo come avrei fatto se avessi parlato di operai tessili o rider, cioè così:

“Tre su quattro svolgono un lavoro di fatto dipendente senza essere assunti: il 40% ha partita Iva e il 35% viene pagato con collaborazioni occasionali. La maggior parte svolge 4 o 5 mansioni contemporaneamente, e solo il 52% riesce a mantenersi con questo lavoro, il resto è costretto a integrare con altre attività, anche molto diverse. Due su tre vengono pagati solo se il loro lavoro viene effettivamente utilizzato da chi lo commissiona, indipendentemente dalla qualità o dalla puntualità della consegna. Il 42% riceve meno di 5.000 euro lordi annui, il 68,1% porta a casa meno di 10 mila euro lordi all’anno. Sono questi i numeri che descrivono la cruda realtà del settore, così come vengono fuori da un sondaggio condotto da Acta e Slow News eccetera eccetera”.

Invece, siccome sono troppo coinvolto, non trovo di meglio che iniziare così:

Nel novembre 2001 – neanche due mesi dopo quell’11 settembre che avrebbe rappresentato la fine della “fine della Storia”, dando inizio al decennio del terrore e alla iper modernità – mi trovavo nella prestigiosa Villa Pallavicini, alla periferia di Bologna, per le lezioni introduttive della allora Scuola Superiore di Giornalismo. Il primo modulo era condotto da Marco Guidi – inviato di guerra e soprattutto uomo del momento, dato che era uno dei pochi ad aver avvicinato e intervistato Osama bin Laden before it was cool – il quale non potendo distoglierci dall’intraprendere la professione (troppo tardi ormai, e poi data la sede pareva brutto) come avevano fatto amici esperti e futuri colleghi fino a quel momento, almeno ci mise in guardia: “Questo è un mestiere che espelle addetti”. Voleva essere uno sprone, fu una profezia. Tutti, più o meno, negli anni successivi avremmo sperimentato in prima persona quel semplice fatto: nella difficoltà di trovare un lavoro, nella facilità di perderlo.

Questo è un mestiere che espelle addetti

Tutti, per quella particolare forma di interesse che si chiama sopravvivenza, ci saremmo appassionati a questo genere un po’ incestuoso che è la riflessione giornalistica sul giornalismo: dagli scritti dei decani come Mario Tedeschini Lalli alle considerazioni di chi come Luca Sofri cercava nuove strade prima con un blog (Wittgenstein) e poi addirittura con un giornale (Il Post), dal punto di riferimento Valigia Blu fino ai dibattiti che sempre più fitti si svolgevano online tra i nuovi professionisti della comunicazione (non li cito perché il loro numero è legione e perché sono tutti più o meno amici, ciao raga come va?).

Avremmo appreso che dagli anni ’40 circa i giornali avevano costantemente perso lettori e che quindi l’onda della crisi montava da lungi, avremmo guardato con spavento e/o entusiasmo ai blogger (e ancora dovevamo vedere i social e gli influencer…).

Avremmo soprattutto capito che i problemi erano molteplici e sovrapposti: da un lato c’è infatti la crisi generale del lavoro, stretto tra le recessioni economiche e l’avanzata delle ideologie neoliberiste. Dall’altro la crisi specifica del settore: relativa alla credibilità (giornalisti contaballe!) nell’epoca della disintermediazione e del do-it-yourself, e più in generale ai consumi culturali (perché spendere un euro per un giornale quando trovo tutto su internet aggratis?).

Da un lato i padroni, dall’altro i lettori, per farla semplice: due piani che si intersecano, ma che a volte è doveroso analizzare in maniera distinta. (Senza contare che a volte anche noi giornalisti, come categoria e rappresentanze ufficiali dico, facciamo ridere i polli: che senso ha, per dire, conferire il tesserino di giornalista a Giancarlo Siani, il cronista precario ammazzato dalla camorra, 35 anni dopo? Leggetevi Marco Ciriello)

E a proposito di blog, tutti poi ce ne siamo aperti uno, di malavoglia e fuori tempo massimo, magari anche per scrivere cose che non avrebbero trovato spazio da nessun’altra parte: tipo le riflessioni-sfogo sul giornalismo.

Un mio vecchio post, parlo del 2012, sulla necessità di un corso di autodifesa per le professioni intellettuali aveva infiammato il dibattito per un paio di giorni su Twitter, quando Twitter era ancora un posto decente. Appena un anno dopo – in una fase della mia vita del tutto diversa, ma questa non è la storia delle fasi della mia vita – avrei scritto un altro post, di tono apertamente surreale e sarcastico, che ha raggiunto migliaia di persone e a tutt’oggi è il mio pezzo più letto.

Dico questo non solo per tirarmela e parlare dei fatti miei come al solito, ma anche per sottolineare come sia relativamente facile sollevare gli animi per un giorno (è capitato a tutti, un paio d’anni fa è stato il turno di un post virale di Ciccio Rigoli), come sia possibile anche se più difficile inquadrare la condizione tragica di una intera categoria, i lavoratori intellettuali (come ha fatto Raffaele Alberto Ventura a partire da Teoria della classe disagiata), ma come sia arduo rendere certe conclusioni un dato di fatto, e soprattutto trarne conseguenze pratiche: più facile immaginare la fine del capitalismo, per parafrasare. Insomma più che il fotone di Heisenberg, il giornalismo sembra il gatto di Schrödinger, che se non apri la scatola è sia vivo che morto, ma quando la apri schiatta all’istante.

Su oltre 40 mila iscritti alla previdenza giornalistica nel 2017-2018, solo poco più di 15 mila erano inquadrati come lavoratori con contratto a tempo indeterminato

Perciò, leggendo i risultati del sondaggio di Acta e Slow news – sondaggio su base del tutto volontaristica, un’indagine quindi non statistica, a cui hanno risposto in maggior parte trenta-quarantenni, e già questo racconta qualcosa – per il dettaglio del quale si rimanda qui, ho pensato: sì, la situazione è drammatica come prima più di prima. Ma allora, che c’è di nuovo? E poi: che possiamo fare? Ne ho parlato perciò un po’ con Debora Malaponti che, dei due settori professionali presi in considerazione, appartiene non ai giornalisti ma ai comunicatori.

“Il sondaggio non ha numeri alti – anche se i campioni che vengono utilizzati in indagini statistiche non vanno spesso sopra qualche centinaio – ma il suo valore sta nel fatto stesso di averlo compiuto. Il freelance è un animale individualista, per indole e condizioni di lavoro: nessuno sa quello che fanno gli altri, c’è frammentazione. Invece riconoscersi negli altri, sapere che non sei l’unico in certe condizioni, è importante”. Certo questa è la base, però ci dev’essere un senso, mi dicevo leggendo i dati, un modo per far partire una discussione: un profilo di novità che non sia il solito rant, la solita lagna. Poi scorrendo il comunicato credo di trovare una chiave.

Leggo le parole di Anna Soru, presidente di Acta: “Il gruppo che ha promosso questa indagine ha continuato a confrontarsi attraverso la rete durante la crisi Covid e si è ora costituito in Acta-media, una sezione specifica di ACTA che ha l’obiettivo di elaborare delle proposte e delle strategie per valorizzare il lavoro dei freelance della comunicazione in quanto freelance, senza inseguire la strada della stabilizzazione dei contratti, che comunque non sarebbe accessibile ai più”.

Ecco, forse, il punto. Il dato, non del sondaggio ma generale e inconfutabile, dice questo: su oltre 40 mila iscritti alla previdenza giornalistica nel 2017-2018, solo poco più di 15 mila profili erano inquadrati come lavoratori con contratto a tempo indeterminato. Però, se fino a ieri l’obiettivo era rovesciare il rapporto, far assumere tutti, oggi almeno per una frangia più avanzata lo scopo è diverso.

“La nostra riflessione – dice Malaponti – è opposta rispetto a quella del sindacato, il cui orizzonte è quello dell’assunzione: tenendo conto di come sono messi i giornali oggi, una prospettiva impensabile. Dobbiamo cambiare atteggiamento: i freelance spesso non sono vittime, costretti in una situazione che non vogliono, ma decidono di esserlo. Perciò gli obiettivi sono due: da un lato smascherare le finte partite Iva, cioè chi ha il 90% del lavoro da un solo cliente, e quindi è come se fosse dipendente. Dall’altro lavorare per creare delle condizioni dignitose per il freelance”. Certo un mondo in cui la maggior parte dei freelance lo sono per scelta è desiderabile, ma perché questa scelta sia libera e non obbligata la posizione del freelance dovrebbe essere appetibile e tutelata. Quali sono le proposte di Acta? Nel comunicato che accompagna il sondaggio si parla di idee in fase di elaborazione; Malaponti ci da qualche dettaglio in più.

“Stiamo pensando a misure universali per più professioni. E poi a interventi specifici per ogni professione. Soluzioni che siano praticabili anche per i datori di lavoro. Una strada fondamentale passa per la definizione dei compensi: ok, non possiamo avere un tariffario minimo, ma dobbiamo cercare strumenti che arrivino a quel risultato (Redacta, la sezione di Acta per il settore editoria, sta già facendo un lavoro sui parametri).

Il freelance non ha margine di negoziazione con il cliente: perciò è importante contarsi e fare rete

In questo momento il freelance non ha margine di negoziazione con il cliente: perciò è importante contarsi e fare rete. Poi c’è da fare un ragionamento sulle professioni ibride, quelle tra giornalismo e pubblicità, perché in questo momento c’è chi non si sente rappresentato né dall’Ordine dei Giornalisti né dall’Associazione Italiana Copywriter. Il cantiere è aperto su parametri e proposte, anche perché spesso il freelance è impreparato rispetto a una domanda che invece ci pongono sempre più spesso: ‘Qual è la tua tariffa? Quanto prendi?’. Poi c’è la questione previdenza: come garantire una sicurezza a tutti quelli che, per esempio perché pagati con la cessione di diritti d’autore, non si stanno versando nessun contributo”.

Infine c’è un altro livello, e una considerazione più generale da fare. Perché pensarsi giornalisti e professionisti della comunicazione, oggi, presuppone come si è stra-detto un livello alto di consapevolezza della situazione. Che spesso si sostanzia nella conclusione, detta brutalmente: il lavoro me lo devo inventare, dobbiamo diventare imprenditori di noi stessi.

Ora, io ho il massimo rispetto – e anzi un po’ d’invidia perché io non ne sono capace – verso chi cerca di creare modelli di business innovativi e capaci di stare in piedi: dal già citato Post alla testata che ospita questa riflessione, fino appunto a Slow News, che sta provando a costruire un modello funzionante e anche etico rispetto ai problemi dell’informazione. Però mi chiedo se a volte non ci si spinga un po’ troppo oltre: in sostanza, sforzandoci di inventare business in grado di stare sul mercato, non stiamo facendo un altro lavoro rispetto al nostro, che sarebbe quello di trovare notizie e/o inquadrarle, connetterle, spiegarle? “L’osservazione è pertinente – mi dice Debora – ma sposta l’attenzione dal punto. Il fatto è che della comunicazione c’è bisogno: il lavoro c’è.

Content manager, social media manager, addetto stampa, scrittura per azienda… Quello che bisogna fare è creare un quadro di riferimento. La difficoltà di cercare modelli nuovi è comune a tutto il mondo: qui, da un lato mancano fondi per le start up editoriali, dall’altro manca al giornalista la cultura manageriale. La nostra sfida è quella di trasformare il malcontento in partecipazione”. È la sfida di tutti.