Cosa significa lavorare a Milano ai tempi del Coronavirus

I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


Al netto di qualcuno più preoccupato degli altri, in questi giorni avverto una sorta di placida vivacità tra i miei amici; che si manifesta sia di persona sia nella chat che condivido con quelli più stretti. La ragione è semplice: la maggior parte di loro lavora solitamente in ufficio e sta attraversando dei giorni di particolare relax. Lo smartworking si sta da tempo diffondendo, ma lavorare da casa per più e più giorni consecutivi – a causa del Coronavirus che ha fortemente limitato la vita da ufficio, qui a Milano e altrove – è per molti un’esperienza nuova. E piacevole.

I ritmi sono più rilassati, ci si può svegliare più tardi e soprattutto si scopre ciò che è sempre più evidente: a casa si lavora meglio. Meno pause e più silenzio. Ma soprattutto meno riunioni, meno presentazioni, meno attività condivise che nel 90% dei casi lasciano il tempo che trovano. Sul tema, i dati sono impietosi: Adam Grant, professore di psicologia alla Wharton Business School della Pennsylvania ha documentato – secondo quanto riporta un articolo pubblicato su Die Zeit (e ripreso in Italia da Internazionale) – come “dagli anni ’90 a oggi il tempo trascorso dagli impiegati in discussioni e attività di gruppo è aumentato del 50%. In molte aziende otto ore di lavoro su dieci sono investite in ‘attività di cooperazione’: conferenze telefoniche, presentazioni in gruppo, discussioni”.

Con il risultato che, alla fine, il lavoro che bisogna svolgere dopo questa interminabile fase di preparazione lo si porta a termine a casa – dopo cena – perché in ufficio il tempo non c’è più. È il classico paradosso della “riunione per decidere di cosa parlare alla prossima riunione”. Un’attività che porta via tanto di quel tempo da diventare di fatto la principale mansione delle nostre giornate lavorative.

Riscoprire come si lavora bene quando ci si può concentrare in santa pace

E così, quello attualmente in corso –  definito il “più grande esperimento di smart working al mondo” – potrebbe avere quantomeno un aspetto positivo: farci riscoprire come si lavora bene quando ci si può concentrare in santa pace. Quando non bisogna passare ore a preparare Powerpoint pieni di grafici innovativi per sembrare al passo coi tempi (e poco importa che siano spesso un ammasso di inutili buzzword). Quando non si è obbligati a essere il più brillante della riunione e finalmente le doti sociali che così tanta parte hanno nel nostro successo professionale (e scolastico) lasciano spazio a quelle di riflessione e ragionamento.

Potremmo risvegliarci, quando il Coronavirus sarà finalmente passato, riscoprendo come l’attenzione che poniamo su aspetti secondari – che l’ex avvocata di Wall Street Susan Cain definisce “l’ideale dell’estroversione” – è fondamentalmente fuffa. Che purtroppo viene scambiata per sostanza a causa della nostra costante e forse innata fascinazione nei confronti di chi è più predisposto alla socialità.

Ma quello che per molti lavoratori dipendenti – almeno quelli che non sono comunque costretti a raggiungere l’ufficio su metropolitane che si preferirebbe evitare – è un’esperienza nuova, rinfrescante e che potrebbe anche gettare le basi per un lavoro del futuro più produttivo e meno ansiogeno, per altri si sta trasformando in una sorta di incubo. Come sempre avviene in questi casi, sono i lavoratori precari, autonomi, freelance o della gig economy quelli che pagano il prezzo più salato.

Il lavoro si è rallentato per tutti, ed è inevitabile. Eventi cancellati, trasferte da evitare, viaggi rinviati, spostamenti resi molto più complessi dagli incredibili ritardi che stanno colpendo la rete ferroviaria. E così – mentre l’ideale ormai considerato noioso del lavoro d’ufficio riscopre una dimensione più umana – il nuovo ideale del lavoro cool, privo di barriere, in costante spostamento, svolto nei coworking o nei bar attrezzati, scopre la sua fase più solitaria.

Il nuovo ideale del lavoro cool svolto nei co-working o nei bar attrezzati scopre la sua fase più solitaria

Niente eventi o inaugurazioni. Niente lavoro al bar che si trasforma in aperitivo (visto che alle 18 si viene cacciati). Niente coworking (almeno per chi non se la sente di stare a contatto ravvicinato con altre persone). Niente giornate passate a correre da una conferenza a un pranzo di lavoro, da un viaggio in treno alla presentazione del libro del momento (perché è stata sicuramente annullata). Possiamo finalmente tirare il fiato, ma in molti casi non possiamo permetterci di tirare il fiato.

Mentre i lavoratori tradizionali si godono il lavoro da remoto con la certezza dello stipendio (ed è giusto così), i freelance si trovano tappati in casa loro malgrado mentre le entrate diminuiscono proporzionalmente agli eventi e alle conferenze e alle interviste e alle presentazioni e ai viaggi che vengono cancellati. Affrontando un momento critico si scopre – ma pensa te! – che la ipermobilità e flessibilità del lavoro da freelance non è un vantaggio, ma un ennesimo punto debole.

Avevamo sacrificato il posto fisso – per scelta o perché non l’abbiamo mai trovato – pensando che almeno avremmo ottenuto in cambio la libertà e la varietà delle esperienze. Che si trattava di uno specchietto per le allodole dietro il quale si nascondono lavori sottopagati e altre forme di sfruttamento già lo sapevamo. Il Coronavirus è giunto a ricordarci che, quando la situazione si fa critica, questa modalità di lavoro iperflessibile che – secondo i guru del turbocapitalismo – dovrebbe essere il futuro di tutti ci lascia ancora più scoperti e ci priva pure degli aspetti positivi che così ingenuamente avevamo inseguito.

Possiamo finalmente tirare il fiato, ma in molti casi non possiamo permetterci di tirare il fiato

Questa però è la situazione generale, che mi circonda. Per quanto invece mi riguarda, il Coronavirus (o più correttamente la paura del Coronavirus) mi ha fatto saltare qualche impegno ma non è che abbia molto da lamentarmi. Nel bene o nel male, la mia vita professionale si svolge comunque per il 90% tra le quattro mura di casa. A differenza di molti degli amici che lavorano in partita iva – videomaker, giornalisti musicali e anche tassisti, le cui entrate rischiano di essere seriamente compromesse – per il momento la mia quotidianità procede più o meno inalterata. Vedo le persone che affrontano la novità del “lavoro ai tempi del Coronavirus” e reagisco stranito, come se fossi un osservatore esterno. Per me, in fondo, è cambiato veramente poco.

La differenza principale è che quando esco di casa non mi ritrovo in una metropoli iperattiva, ma in una città in cui non c’è traffico e i bar sono chiusi dopo le 18. In cui la metro è mezza vuota e le persone passeggiano con calma perché non stanno tornando tardi dal lavoro, ma rientrando da qualche commissione svolta in quartiere. Al netto degli aspetti più seri, gravi e a volte drammatici dell’epidemia (questo è l’inevitabile disclaimer), sembra quasi che il Coronavirus ci abbia riportato a una dimensione più umana: i ritmi rallentano e chi ha un lavoro fisso può svolgerlo in molti casi con più calma e concentrazione. Chi invece lavora in autonomia ha un’ulteriore conferma di quanto ciò sia una fregatura.

Il Coronavirus sta minando l’economia globale, seminando il panico (anche a causa di un’informazione che ha dato il peggio di sé) e sconvolgendo la vita di chi affronta l’epidemia in prima linea (a partire dai medici di base abbandonati a loro stessi e senza neanche una mascherina). Ma è riuscito in un’impresa che – immersi nella milanesità – sembrava ancora più ardua: ha ridimensionato la nostra frenesia a base di progetti, schedule, effort e deadline, ha aiutato a rimettere le cose in prospettiva e ricordato a tutti il lato oscuro dell’ideale di una vita da freelance. Quando il virus se ne sarà andato, speriamo almeno che questo sia il suo lascito.