Sadie Plant e la rivoluzione informatica al femminile

Quale che sia il suo valore artistico, la fantascienza è destinata a un ulteriore controllo di qualità, che consiste nel verificarne la portata profetica, più o meno autoavverante. L’immaginario cyberpunk degli anni ‘80 e ‘90, ad esempio, ha vaticinato con una buona precisione l’attuale contemporaneità. L’avvento e la pervasività di internet, le megalopoli, le intelligenze artificiali, le crisi climatiche, un certo nichilismo diffuso: seppur con gradi diversi il cyberpunk è il nostro presente.

Se si escludono tecnologie inutili come le macchine volanti è stato più facile prevedere gli sviluppi tecnologico-sociali che i trend estetici; nella realtà infatti abbiamo preferito nascondere il carattere macchinico dei nostri device dietro design puliti e rassicuranti, piuttosto che esaltarlo con ibridazioni cyborg. Anche il gusto S/M alla Matrix o l’abbigliamento raver ha limitato la sua portata o è confluito nei tanti rivoli della moda, che nella sua effimera corsa è più rapida degli sviluppi tecnologici. Se il cyberpunk ha spesso colto nel segno, dunque, è lecito domandarsi quanto lo abbia fatto la filosofia cyberpunk.

Dal 21 al 23 ottobre si terrà a Rovereto la seconda edizione del festival organizzato dall’associazione Informatici Senza Frontiere, dedicato all’impatto sociale dell’innovazione tecnologica.

Tre giorni di incontri, dibattiti, conferenze, laboratori per riflettere sulla tecnologia come fattore di inclusione e integrazione per anziani, disabili, giovani, migranti, e per tutte le persone che la travolgente mutazione tecnologica in atto rischia di marginalizzare.

cheFare e Luca Sossella editore propongono un percorso di avvicinamento al festival con una serie di approfondimenti, dialoghi, recensioni che esplorano la frontiera lungo la quale linguaggi digitali e ridefinizione delle identità sociali si incontrano, interagiscono e si modellano reciprocamente. 

Prima di googlare sappiate che questa corrente me lo sono inventata, o per meglio dire è il nomignolo affettuoso (e fino ad oggi privato) con cui chiamavo la filosofia nata verso la fine degli anni ‘90 attorno al fermento culturale della CCRU, la Cybernetic Culture Research Unit, un collettivo filosofico di studenti e docenti della Warwick University, in Inghilterra. Maestro, fondatore e profeta della CCRU l’oscuro filosofo accelerazionista Nick Land, figura carismatica, astuto arbitro di mode, abile neologista – suo il termine ‘iperstizione’, che potevo usare al posto di ‘profezia autoavverante’, di cui è sinonimico ma fa più scena. Dalla CCRU sono usciti filosofi influenti come Mark Fisher, mentre altri come Ray Brassier l’hanno osservata con interesse, seppur rimanendo all’esterno. E poi c’è Sadie Plant, di cui non sapevo niente ma che scopro essere la vera fondatrice della CCRU. È un destino frequente per le donne quello di essere oscurate da un maschio e contro l’invadente carisma di Land, collega e per un po’ compagno, non c’è stato nulla da fare. È un peccato, perché sono dell’opinione che Plant sia meno oscura, più originale e filosoficamente più interessante di Land e degli altri pensatori che gravitavano attorno alla CCRU. Ad attirare l’attenzione su questa filosofa è stata la recente pubblicazione di Zero, uno, un libro del 1997 uscito solo adesso in Italia per Luiss University press. È un testo dalla scrittura limpida seppur evocativa, carico di citazioni ma privo di pesantezza accademica, stilisticamente originale senza risultare, dopo più di vent’anni, vittima delle mode linguistiche del momento – che peraltro ha contribuito a dettare. D’altra parte il libro inizia con un’analisi che è anche una dichiarazione di poetica:

“Nella concezione tradizionale di libri e articoli di saggistica, la distinzione tra il corpo principale del testo e tutti i suoi dettagli periferici – indici, titoli, prefazioni, dediche, appendici, illustrazioni, riferimenti, note e diagrammi – per molto tempo ha costituito un principio indiscusso […] quando le reti informatiche si sono strutturate in thread e link le note a piè di pagina hanno iniziato a colonizzare quello che un tempo era il corpo del testo”.

E in effetti la struttura del libro è molto vicina a quella dei testi nati per la diffusione online, con capitoli brevi, titoli evocativi e mille rimandi interni. Sebbene lo stile abbia precorso i tempi però, quel che voglio mettere alla prova è la portata (ok lo dico) iperstizionale dell’iperbolica sintesi di femminismo e informatica intessuta da Plant, che giunge a identificare la figura e il ruolo della donna con quella dei computer.

Madrina del libro è Ada Lovelace (1815 – 1852), la matematica inglese che, grazie all’invenzione di un software nel 1843, può essere considerata la prima programmatrice della storia. Figlia del poeta e aristocratico Byron, per via del suo spiccato talento matematico collaborò sin da giovanissima con Charles Babbage, matematico e inventore della macchina analitica –  antesignana del computer – per cui Ada sviluppò un algoritmo per generare i numeri di Bernoulli, il primo passo della moderna informatica.

Sebbene Ada fece del suo meglio per rivestire il ruolo canonico che la società aveva previsto per lei, fin da subito fu evidente che non era quel che desiderava. A ventiquattro anni era già madre di tre bambini, due maschi e una femmina, ma non passò molto tempo prima che cominciasse a descrivere i suoi figli come “doveri seccanti e niente più”. Scriveva che “A voler essere onesta, considero i bambini un fastidio più che una gioia”. Ada però non era una madre snaturata, ma una donna che non voleva esser madre e a cui era stata imposta questa via perché era (ed è) quel che ci si aspetta da una donna. Nonostante le origini aristocratiche inoltre, questa matematica ebbe molti ostacoli nel portare avanti una carriera che all’epoca era considerata poco adatta al suo sesso, tanto che

“Ci furono volte in cui quasi cedette alla superstizione di moda all’epoca, ossia che alla base della sua isteria ci fosse l’iperstimolazione dell’intelletto. Scrisse a un certo punto: “Molte cause hanno contribuito a produrre gli squilibri mentali passati; e in futuro dovrò evitarle. Una di queste (ma solo una tra tante) era costituita da un eccesso di matematica”. Nemmeno alle contesse era consentito di contare”.

Cionostante Ada non si rassegnò, anche perché, come ebbe a dire lei stessa, “non credo che il talento di mio padre come poeta sia mai stato (o avrebbe mai potuto essere) paragonabile al mio come Analista” e, ci perdoni Lord Byron, è probabile che avesse ragione.

La scienziata inoltre è praticamente la figura allegorica di una tesi che Plant costruisce nel libro: le donne, che nelle culture patriarcali vengono relegate a svolgere compiti modesti e quasi meccanici, erano proprio per questo più adatte a seguire e cavalcare la rivoluzione informatica. Il parallelo inizia con l’arte della tessitura, l’unica concessa alle donne e alcova della rivoluzione industriale e tecnologico. In merito è suggestivo questo passaggio su Freud:

“Nel 1933 Sigmund Freud fece un ultimo tentativo di risolvere l’enigma della femminilità: […] “Si dice che le donne” scrisse “abbiano fornito pochi contribu- ti alle scoperte e alle invenzioni della storia della civiltà.” Alle donne mancavano sia la capacità sia il desiderio di cambiare il mondo. Non erano logiche, non pensavano in modo ordinato, e non erano in grado di concentrarsi. […] “Eppure c’è forse una tecnica che esse hanno inventato: quella dell’intrecciare e del tessere””

In eseguito il fondatore della psicanalisi interpreta l’invenzione femminile della tessitura con una tesi che oggi non può che suonare grottesca, ovvero che la causa è da rintracciare nel gioco femminile dell’intrecciare i peli pubici – sì, ogni tanto Freud era la parodia di se stesso. Quale che sia il motivo, l’intrecciare inconscio di peli pubici o la programmatica delega a mansioni di scarso prestigio, con lo sviluppo tecnologico le macchine per la tessitura furono le prime a implementare dei processi automatici, se non addirittura dei veri e propri programmi per ripetere i motivi e i ricami. E così, man mano che l’industrializzazione procedeva la sua ascesa,

“…l’emergere del settore terziario e l’ascesa di una miriade di nuove industrie nel campo della manifattura e dell’informazione hanno causato una progressiva svalutazione di quelle caratteristiche che un tempo garantivano un alto ritorno economico. Alla domanda di forza muscolare ed energia ormonale è subentrata quella di velocità, intelligenza, e doti interpersonali e comunicative. Al contempo tutte le strutture, le gerarchie e le certezze garantite dai lavori tradizionali sono state spazzate vie dalle nuove modalità di lavoro, part time e discontinui, che privilegiano l’indipendenza, la flessibilità e l’adattabilità. Queste tendenze hanno avuto un grande impatto sia sui lavoratori specializzati sia su quelli non specializzati. E, dato che fino a non troppo tempo fa gran parte della forza lavoro full time e a tempo indeterminato era maschile, sono stati soprattutto gli uomini a pagare le spese di questi cambiamenti, anche in termini psicologici; parallelamente, sono state le donne a trarne maggior vantaggio. […] L’automazione è stata accompagnata da quella che spesso viene definita “femminilizzazione della forza lavoro”, fin da quando le prime lavoratrici azionarono le prime macchine automatiche; pertanto lo spauracchio della disoccupazione, onnipresente nei dibattiti sull’innovazione tecnologica, ha sempre riguardato i lavoratori maschi piuttosto che le loro colleghe”.

Per Plant le donne erano più preparate culturalmente e psicologicamente alle condizioni economiche emerse alla fine del XX secolo, perché possedevano già abitudini e qualità richieste dalle nuove forme di lavoro, come precarietà, competenze multiple, flessibilità e massima adattabilità. Le donne d’altra parte erano abituate ad essere considerate alla stregua di strumenti: venivano trattate come tecnologie riproduttive, apparecchiature domestiche, strumenti di comunicazione e di piacere. Erano perfette per formare la massa lavoratrice di un nuovo settore caratterizzato da mansioni ripetitive, processi uniformi e competenze intercambiabili come ordinare, classificare, battere a macchina, schedare, smistare, processare, contare, registrare, duplicare, calcolare, reperire, copiare. Anche durante la Prima guerra mondiale e in parte della Seconda esistevano squadre di donne-calcolatrici, il cui scopo era mettere a punto le tavole di tiro che gli artiglieri consultavano prima di mirare e sparare all’obiettivo. In seguito le stesse donne che un tempo calcolavano le tavole di tiro saranno reclutate per costruire le macchine che avrebbero svolto lo stesso compito. Secondo l’espressione della filosofa, erano “computer che assemblavano altri computer”. Così, “all’inizio degli anni Cinquanta, quando il Merriam Webster modificò la definizione di computer da “persona che opera computazioni” a “persona o cosa che opera computazioni”, fu palese che le cose non sarebbero più tornate come prima. Se le donne erano computer, adesso si stavano programmando da sole.”

Le donne d’altra parte erano abituate ad essere considerate alla stregua di strumenti

L’ipotesi dell’autrice è suggestiva, anche se forse troppo vincolante. L’emancipazione delle donne è andata di pari passo con lo sviluppo informatico, ma è difficile determinare quale sia il peso causale dei due eventi rispetto ad altre influenze sociali, economiche e politiche. In ogni caso per Plant l’informatica riequilibra la società a favore dello Yin femminile e rende giustizia alla forza dello zero, “da sempre qualcosa di molto diverso rispetto al segno emerso dall’incapacità dell’Occidente di concepire un’entità che, come lo zero, non è né qualcosa in particolare né il niente assoluto”.

La filosofa però non ha mai aderito all’ingenuo ottimismo della Silicon Valley, perché si accorge dei rischi dello sviluppo tecnologico, che non interpreta tanto come una rivoluzione a lungo attesa quanto una lente attraverso cui il mondo si rivela. La possibilità di nascondere e mutare la propria identità nella rete, ad esempio, per Plant sono una dimostrazione del fatto che siamo un “grappolo di esistenze”, come scrive il romanziere rumeno Mircea Cartarescu. La filosofa sostiene che

“Perfino i tentativi di restare immutati, di rafforzare la propria identità e di tenerla in riga sono condannati a diventare sempre qualcos’altro. Coloro i quali hanno come unica preoccupazione quella di rafforzare la propria mascolinità scoprono che anche una mascolinità preesistente deve essere simulata: non c’è niente di reale nell’uomo vero interpretato da Schwarzenegger o nei corpi maschili scolpiti nelle palestre. Proprio come non sono “reali” i vari mutamenti progressivi che, sommati insieme, producono l’effetto generale di una precisa identità sessuale. Nemmeno quel percorso ha una fine. Nessuno è o ha un solo sesso per volta, ma brulica di sessi e sessualità troppo fluidi, volatili e numerosi per essere contati.”

Sempre per quel che riguarda la portata profetica,  si deve anche riconoscere a Plant il merito di aver intuito la strada che avrebbe imboccato lo studio e sviluppo dell’intelligenza artificiale. La filosofa infatti si schiera a favore  dell’allora minoritaria linea di ricerca  dei percettroni e delle reti neuronali, il cui scopo non era simulare le manifestazioni esterne dell’intelligenza – facoltà cognitive, competenze verbali, abilità conversazionali – bensì i processi sottostanti. La ricerca contemporanea e i successi del deep learning sembrano averle dato ragione.

C’è infine un’intuizione di Plant che ancora non è possibile verificare, che nel libro è appena una suggestione, ovvero il legame che la filosofa individua tra lo sviluppo tecnologico/informatico e la logica binaria tipica dell’Occidente, sia di mutuo rafforzamento che di apertura. Gli ultimi capitoli di Zero, uno suggeriscono che questa forma concettuale potrebbe diventare obsoleta a favore di una logica diversa, magari legata allo sviluppo della computazione quantistica, perché “l’informatica quantistica, operando a livello subatomico, permetterà alla comunicazione di convergere sul piano delle particelle subatomiche e farà sembrare gli impulsi e i bit di informazione dell’elettronica obsoleti e ingombranti. Se le comunicazioni elettroniche hanno reso possibile intimi legami tra entità distinte e incompatibili, questi legami sono ora il punto di partenza per i loro successori quantistici”. Non resta che aspettare dunque, per vedere se anche in questo caso la filosofa ha colto nel segno.