Cosa c’è bisogno di sapere per vivere nell’infosfera di Luciano Floridi

I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


La nostra società sta affrontando un cambiamento drastico. Una fase di radicale trasformazione che Luciano Floridi, filosofo dell’Informazione e della Tecnologia all’Università di Oxford, chiama “quarta rivoluzione”. Attenzione, però, ciò di cui parla Floridi non è la cosiddetta quarta rivoluzione industriale a opera dell’intelligenza artificiale (che segue quelle del motore a vapore, dell’elettricità e dell’informatica), ma è una rivoluzione dell’essere, della comprensione di noi stessi e al centro della quale c’è l’infosfera: lo spazio informativo dell’epoca digitale che coinvolge tutti gli ambiti della vita, ponendo sfide sconosciute. Teorizzato da Floridi fin dal 2009, questo concetto è al centro anche del suo ultimo libro: Pensare l’infosfera, appena pubblicato da Cortina Editore.

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Ma quali sono state le prime tre rivoluzioni dell’essere? La prima risale al 16° secolo ed è opera di Copernico, che dimostrando come sia la Terra a girare attorno al Sole, e non viceversa, ci ha messo di fronte a una cruda verità: l’uomo non è al centro dell’universo. La seconda rivoluzione è invece legata a Darwin, che con la sua teoria dell’evoluzione mise in crisi l’antropocentrismo e dimostrò l’origine animale dell’uomo. A quel punto non restava all’uomo che il dominio della mente e della ragione. Una sicurezza cancellata dalla terza rivoluzione, quella freudiana, che ha spostato il centro di gravità dell’individuo dalla coscienza all’inconscio.

Quella che stiamo affrontando oggi è la quarta rivoluzione ed è intimamente legata al ruolo del digitale e della tecnologia delle nostre vite. “Ci era rimasta una sola centralità, che ci portava ancora a dire cose tipo ‘a scacchi non potrà mai batterci nessuno’ oppure ‘vorrei proprio vedere se un robot è in grado di parcheggiare in uno spazio così stretto’”, ha raccontato lo stesso Floridi durante una recente lectio tenuta a Milano. Ormai lo sappiamo: tra intelligenze artificiali che sconfiggono i campioni mondiali di scacchi, di Go e di innumerevoli altri giochi, e che stanno gradualmente imparando a guidare le automobili o a diagnosticare malattie, anche la certezza di essere superiori a chiunque altro nelle attività intellettuali è stata messa in dubbio.

Questa rivoluzione si può quindi far ricondurre ad Alan Turing e allo sviluppo dell’informatica. E ci pone di fronte a nuove incognite su quale sarà il ruolo dell’uomo in un mondo in cui il potere computazionale delle macchine intelligenti continua ad aumentare, assieme alla quantità di big data disponibili e alla costante diminuzione dei costi necessari per accedere a tutto ciò. Ma una parte integrante della quarta rivoluzione consiste in un cambio di paradigma sottolineato da Floridi: non dobbiamo soltanto chiederci che cosa stiamo facendo noi con tutto questo potere computazionale, ma anche che cosa questo potere computazionale stia facendo a noi.

Per farla semplice, non siamo solo degli attori che cambiano il mondo attraverso la tecnologia, ma anche soggetti che vengono trasformati dalla tecnologia stessa. Un esempio perfetto è quello delle auto autonome. Affinché le self driving cars possano davvero un giorno circolare per le città, dove mai sarebbero in grado di districarsi tra vicoletti, pedoni che attraversano ovunque, tram, auto in doppia fila e motorini, alcuni esperti di intelligenza artificiale del calibro di Andrew Ng hanno proposto di ripensare le città affinché siano adattate alle auto autonome. Come ha affermato sempre Floridi: “Non stiamo costruendo un’auto autonoma che sa guidare nel mondo, ma un mondo all’interno del quale l’auto autonoma può guidare”.

Gli smart speaker che si stanno diffondendo in ogni casa sono un altro esempio. Alexa o Siri non sono davvero in grado di capirci. Siamo noi che abbiamo imparato a rivolgerci alla macchina in una maniera schematica, sempre uguale, priva di quei tic e di quelle ambiguità che contraddistinguono il linguaggio umano. È l’unico modo per essere da lei compresi. Ciò che rende lo scambio possibile è quindi il fatto che noi stiamo imparando a parlare come una macchina, non che la macchina stia imparando a parlare come un essere umano. In un certo senso, è Alexa che ci sta addestrando.

Una volta intrapresa la strada della rivoluzione tecnologica, insomma, è inevitabile che questa trasformi anche noi. Come diceva Churchill, “prima siamo noi a dare forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi”. Da questo punto di vista, l’edificio digitale che abbiamo costruito sta cambiando radicalmente l’uomo, che reagisce con due narrazioni agli antipodi.

La prima è quella della digital transformation abbracciata dagli ottimisti e riassunta da slogan come connecting the world (copyright: Facebook), che vedono nel digitale un mondo di potenzialità da accogliere in maniera (spesso) acritica e che etichettano come reazionario chiunque si preoccupi delle conseguenze negative dell’impatto dell’automazione sul mondo del lavoro, delle storture del capitalismo di piattaforma, dell’impatto cognitivo di smartphone e social network e altro ancora.

Dall’altra c’è invece la narrazione alla Black Mirror, distopica. Che vede gli esseri umani perdere gradualmente controllo su se stessi cedendolo ai dispositivi tecnologici. In cui la libertà di agire autonomamente viene abbandonata in favore dei nudge, quegli incentivi digitali che ci stimolano a eseguire le azioni che altri ritengono essere giuste per noi (è il caso di un’applicazione come LifeCycle, che ci sprona a organizzare la nostra vita affinché sia il più produttiva possibile).

Chi ha ragione? Probabilmente tutti e due, o nessuno dei due. Da un lato si tende a magnificare le prospettive aperte dalla rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale senza prendere in considerazione le inevitabili criticità; dall’altra si tratta l’uomo come se fosse un automa alla mercé dei suoi stessi dispositivi e ormai incapace di agire in maniera indipendente. In tutto questo, si rischia di non vedere che il passaggio fondamentale è un altro. Ed è il passaggio che, secondo Luciano Floridi, dalla storia ci ha portato nella iperstoria.

Se la preistoria è caratterizzata dalla mancanza di una trasmissione puntuale delle informazioni (a causa dell’assenza della scrittura), la storia è invece il momento in cui, grazie alle comunicazioni scritte, le informazioni iniziano a circolare, rendendo possibile la nascita delle leggi, di commerci sempre più complessi e la trasmissione del sapere di generazione in generazione.

Oggi questa condizione sta nuovamente cambiando e ci sta portando nell’iperstoria: “La maggior parte delle persone vive tutt’ora nell’età della storia, in società che fanno affidamento sulle ICT (information and communication technology, ndr) per registrare, trasmettere e utilizzare dati di ogni genere. In tali società storiche, le ICT non hanno ancora preso il sopravvento sulle altre tecnologie, in particolare su quelle fondate sull’uso di energia, in quanto risorse di importanza vitale”, scrive Floridi nelle prime pagine del suo precedente libro, La Quarta Rivoluzione (Cortina Editore). “Vi sono talune persone nel mondo che vivono già nell’età dell’iperstoria, in società e ambienti nei quali le ICT e le loro capacità di processare dati non sono soltanto importanti, ma rappresentano condizioni essenziali per assicurare e promuovere il benessere sociale, la crescita individuale e lo sviluppo generale. Per esempio, tutti i membri del G7 (…) si qualificano come società iperstoriche poiché, in ciascuno di questi paesi, almeno il 70% del prodotto interno lordo dipende da beni intangibili, fondati sull’uso dell’informazione, piuttosto che da beni materiali, che sono il prodotto di processi agricoli o manifatturieri”.

È la società dell’informazione, in cui il ruolo dominante non lo gioca più la produzione di beni materiali, ma la vita all’interno di quella che sempre Floridi chiama infosfera. Una sfera informativa che ci circonda costantemente, all’interno della quale creiamo nel giro di un paio d’anni più dati di quanti non ne siano stati generati nella restante storia dell’umanità; in cui circa il 50% dell’umanità è connesso alla rete e oltre due miliardi di persone sono iscritte a Facebook.

E così, dopo “quarta rivoluzione” e “infosfera” arriviamo al terzo e probabilmente più importante dei termini coniati da Luciano Floridi: onlife, crasi di online e life e concetto che ha avuto il merito di spezzare l’obsoleta dicotomia tra vita “reale” e vita digitale. “La pervasività sempre crescente delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT) scuote le strutture di riferimento consolidate attraverso le seguenti trasformazioni: lo sfocamento della distinzione tra reale e virtuale; della distinzione tra umano, macchina e natura; l’inversione dalla scarsità dell’informazione all’abbondanza dell’informazione e il passaggio dal primato delle entità al primato delle interazioni”, scrive Floridi nel suo Onlife Manifesto.

La nostra vita non è divisa tra esperienze online ed esperienze offline e non c’è una supremazia, o maggiore autenticità, delle une rispetto alle altre. Tutto è fuso: un’esperienza virtuale può proseguire nel mondo fisico, una nostra azione nel mondo virtuale può avere concrete ripercussioni in quello offline. E, soprattutto, non c’è motivo di ritenere che ciò che avviene online sia meno “vero” di ciò che avviene offline. Non siamo esseri umani che si immergono temporaneamente nel mondo digitale per poi riemergere, scrollarci tutto di dosso, e riprendere la nostra vita regolare: le due esperienze sono costantemente e profondamente intrecciate.

Se questa dicotomia mantiene un barlume di significato è soltanto perché, ancora oggi, la nostra condizione di base è offline e per connetterci al mondo dobbiamo prendere in mano uno smartphone o aprire il portatile. Ma questa condizione, che già è stata in parte modificata dalla presenza crescente degli smart speaker, sta per essere definitivamente abbandonata con il prossimo avvento dei visori in realtà aumentata, indossabili come occhiali: la normalità sarà essere sempre connessi alla rete e avere il mondo digitale davanti agli occhi. Per immaginare e comprendere cosa comporterà questo definitivo passaggio all’onlife, dobbiamo però passare da Luciano Floridi a un altro teorico della società digitale, il futurologo e fondatore di Wired Kevin Kelly, che nella sua visionarietà (sempre e comunque ottimista, come d’obbligo per un aderente all’ideologia californiana) è riuscito meglio di chiunque altro a immaginare come sarà il mondo quando le potenzialità della realtà aumentata si saranno completamente dispiegate, dando vita a ciò che nel suo ultimo saggio ha chiamato Mirrorworld (e che potremmo davvero definire il luogo in cui si vive onlife).

A breve, ogni posto e ogni cosa nel mondo reale – ogni strada, lampione, edificio e stanza – avrà il suo gemello digitale in dimensioni reali nel mirrorworld. Per ora, solo alcuni piccoli frammenti del mirrorworld sono visibili attraverso i visori AR (augmented reality). Pezzo dopo pezzo, questi frammenti virtuali stanno venendo cuciti assieme per dare forma a un luogo continuo, condiviso, che sarà parallelo al mondo reale. Lo scrittore Jorge Luis Borges immaginò una mappa esattamente delle stesse dimensioni del territorio che rappresentava. “Nel tempo”, scrisse Borges, “la Gilda dei Cartografi mise a punto una Mappa dell’Impero le cui dimensioni erano quelle dell’Impero, e che coincideva esattamente con esso”. Oggi stiamo costruendo questa mappa 1:1 dalla portata quasi inimmaginabile e questo mondo diventerà la prossima grande piattaforma digitale.

Non si tratta di una sorta di versione potenziata di Google Maps – che può rappresentare al massimo la facciata digitale del mondo in cui viviamo – ma di qualcosa di completamente diverso: una riproduzione integrale, completa, abitabile della realtà; completamente immersa e fusa in essa. “Il mirrorworld”, prosegue Kelly, “rifletterà non soltanto l’aspetto di qualcosa, ma il suo contesto, significato e funzione. Interagiremo con esso, lo manipoleremo e ne faremo esperienza come la facciamo del mondo reale”.

Un primo assaggio di tutto ciò – l’equivalente di ciò che poteva essere internet ai tempi del 56k paragonato a quello odierno – si è avuto con i Pokémon Go. Ma già oggi esistono altre applicazioni per smartphone, trasportabili senza difficoltà sui visori, attraverso le quali è possibile, per esempio, inquadrare tutti i monumenti che si incontrano durante una visita per scoprire il loro nome, storia e caratteristiche, vedere le opinioni degli utenti e molto altro ancora. In futuro, le persone che abbiamo conosciuto (o di cui siamo amiche su Facebook) potrebbero invece portare agganciate a esse un’etichetta digitale riportante il loro nome, permettendoci di riconoscerle al volo se le incrociamo. Potremo inoltre lasciare un appunto digitale sulla vetrina reale di un negozio, per ricordarci o segnalare a un amico – la prossima volta che passeremo o passerà di qui – un capo d’abbigliamento che volevamo acquistare.

“Collegheremo con gli hyperlink gli oggetti di un network fisico, così come il web ha collegato le parole”, prosegue Kelly. “La prima grande piattaforma tecnologica è stata il web, che ha digitalizzato l’informazione sottomettendo la conoscenza al potere degli algoritmi ed è dominata da Google. La seconda grande piattaforma sono i social media, che vivono principalmente sugli smartphone: hanno digitalizzato le persone, subordinato il comportamento e le relazioni al potere degli algoritmi e sono dominate da Facebook e WeChat. Oggi siamo all’alba della terza piattaforma, che digitalizzerà il resto del mondo. Su questa piattaforma, tutti gli oggetti e i luoghi saranno leggibili dalle macchine e soggetti al potere degli algoritmi”.

Il processo che porterà al mirrorworld, e di cui oggi assistiamo ai primi goffi passi, ha quindi l’obiettivo conclusivo di “spostare internet dagli schermi al mondo reale”, come ha efficacemente spiegato Ori Inbar, uno dei principali investitori nel settore della realtà aumentata. Mentre il teorico della iperrealtà Keiichi Matsuda si è spinto ancora più in là: “Il mirrorworld ti immerge nel digitale senza rimuoverti dallo spazio in cui vivi. Sei ancora presente, ma su un differente piano della realtà”.

È difficile pensare a qualcosa di più rivoluzionario della possibilità di vivere, noi umani, in un differente piano della realtà.

Eppure è proprio il mondo verso cui ci stiamo dirigendo a grandi passi. Un percorso ricco di potenzialità, ostacoli, incognite e pericoli. Che potrebbe cambiarci in profondità. Ed è per questo, tornando al lavoro di Luciano Floridi, che oggi il digitale sta dando nuova linfa alla filosofia e all’etica. Perché abbiamo bisogno di anticipare e guidare l’impatto che queste tecnologie avranno su di noi e sull’ambiente che ci circonda. Abbiamo bisogno di un framework intellettuale che ci aiuti a dare significato e a comprendere questa nuova complessa situazione. Un compito che può e deve essere svolto proprio dalla filosofia, che finalmente ritrova il suo ruolo nella società contemporanea. Diventando, come dice lo stesso Floridi, “una filosofia del nostro tempo per il nostro tempo”.