Una nuova terra promessa

Quando studiavo al Queens College di New York ricordo molto chiaramente una delle prime lezioni di Media Theory in cui Douglass Rushkoff iniziava raccontando di essere stato invitato qualche mese prima ad un evento super esclusivo organizzato da gruppi di investitori. Finito il suo breve intervento sulle tecnologie del futuro fu avvicinato dal CEO di una grossa compagnia che dopo alcune curiosità su quali investimenti tech intraprendere, lo poneva di fronte ad una domanda: come potrò mantenere il potere sulle mie forze di sicurezza dopo l’Evento? Dovrò rifugiarmi su Marte, in  Nuova Zelanda o in Alaska per fuggire dalle guerre civili o da virus inarrestabili? In breve, come posso usare la tecnologia per scappare dalla realtà? Era il 2018.

Sul metaverse prima di Metaverse è già stato detto molto; sono tantissimi i riferimenti storici, le trovate veggenti e la dose di futurologia sembra più accesa del solito. Forse perché la letteratura, il cinema e in particolare la rete pullulano già da tempo di metaversi (per il caso italiano, profetico e un filo inquietante è il comizio politico tenuto da Di Pietro su Second Life nel 2007).

O forse perché il mateverso c’è sempre stato, come l’America nell’immaginario degli europei prima della fine del 400. C’è qualcosa di simbolico che unisce i racconti medievali delle Isole Felici o del Purgatorio dantesco al mondo possibile (uno dei tantissimi) del Metaverse profetizzato per la prima volta da Neal Stephenson in Snow Crash (1992).

È innanzitutto l’attesa di una terra promessa o di un paradiso terrestre; ma ancora di più in questo caso è la metafora della terra delle opportunità in cui rifugiarsi, conquistare e creare un nuovo confronto con l’altro come ultimo disperato tentativo di conferma della nostra identità.

Ora, ripensando al video di annuncio di Meta, re-branding di Facebook Company che è cambiato in Meta Company dichiarando 50 miliardi di investimento e 10 mila specialisti a lavoro in Europa, le parole di Mark sul futuro del metaverso sembrano avvalorare questa tesi di scoperta del nuovo Internet, che suona come l’ennesima insegna luminosa per abbagliarci e nascondere la sua fuga. 

Quello che è importante capire però è che Mark non è l’unico miliardario a voler usare la tecnologia per scappare dal mondo che ha rovinato.

Elon Musk e Jeff Bezos sembrano decisi ad abbandonare il pianeta, il Ceo di Twitter pratica settimanalmente ritiri spirituali in totale silenzio; e poi ci sono gli altri metaversi.

C’è innanzitutto il metaverso di Microsoft ovvero The Mesh: una piattaforma interattiva che dovrebbe nascere inizialmente come espansione di Microsoft Teams e vedere le principali differenze con il metaverso di Facebook nell’utilizzo di avatar 3D al posto di visori VR e alcune funzionalità legate alla traduzione e alla rimozione delle barriere linguistiche.

Ci sono poi, tra i tanti esperimenti alcune terre selvagge che stanno iniziando a catturare l’attenzione di veri e proprio conquistadores digitali.

Da qualche anno infatti due mondi apparentemente lontani, il gaming e le crypto, sembrano essersi concretizzati in quello che il CEO di Epic Games, Tim Sweeney ha definito come una sorta di gigantesco parco gioco online. Uno dei padri di Fornite è infatti un altro dei principali attori dello sviluppo di metaversi alternativi a quello proposto da Facebook; Sweeney vede nella natura innata e interattiva dei videogiochi un’evoluzione centrale del metaverso che renderebbe obsoleti i social media per come li conosciamo oggi. La principale “battaglia” nel nuovo internet sarebbe proprio quella di riportare al centro dell’esperienza l’utente e in particolare il creatore di contenuti e le comunità di creatori rendendoli degli sviluppatori e programmatori attivi (il fatto che uno dei principali motori grafici su cui stanno investendo i maggiori brand nel Metaverso sia Unreal Ungine sviluppato da Epic Games rende queste dichiarazioni ancora molto utopiche).

Lo spunto fornito da Sweeney però aiuta a capire quello che potrebbe essere una chiave di lettura per il metaverso oltre a quella cringe fornita di Zuckerberg: partecipazione attiva degli utenti giocatori/creatori ma soprattutto programmazione. 

Piattaforme come The Sandbox, che in ambito informatico sta ad indicare proprio uno spazio estraneo dove vengono fatti esperimenti e test, sono mondi virtuali in cui i giocatori possono costruire, possedere e monetizzare le proprie attività di gioco nella blockchain di Ethereum.

Una sorta di Second Life in cui però è possibile acquistare terre, edificare e scambiarsi beni attraverso NFT (token non fungibili).

Realtà come Decentraland offrono la possibilità di comprare “appezzamenti di terra”  in un mondo virtuale suddiviso in griglie, in cui ogni quadratino corrisponderebbe ad una proprietà terriera acquistabile e vendibile in MANA (criptovaluta sulla blockchain di Ethereum).

The Sandbox e Decentraland sono quindi metaversi decentralizzati poiché attraverso l’utilizzo di token come gli NFT o altre crypto e la verifica di un registro blockchain permettono di non affidare necessariamente i propri dati a sistemi centralizzati come Facebook. 

È sicuramente presto per capire quanto resisteranno queste piattaforme alla morsa dei conquistatori e investitori digitali, anche considerando i 10 anni di tempo che ha pronosticato Mark per la creazione effettiva di Meta. Tuttavia un primo scenario sembra delineato.

Da una parte l’affinità tra cripto e mondi virtuali, dall’altra il desiderio di fuga delle compagnie monopoliste da un contesto agonizzante e il tentativo di riconquista e redenzione nelle lontane terre selvagge. Nel mezzo il mercato di noi utenti, o dei nostri avatar sgranati; i nostri contenuti mercificati, la nostra attenzione frammentata in tanti piccoli segmenti dispersi in aste pubblicitarie, l’ibridazione tra gioco e lavoro, tra linguaggio e programmazione, le nostre esperienze recintate dai brand e il loro tentativo di farci migrare da una mondo all’altro, promettendo quello che la terra da cui scappiamo ci ha negato e infine il dubbio, il ragionevole dubbio, di non essere già da tempo dentro a questo meta-mondo, paralizzati dalla paura di rompere l’incantesimo che ci fa andare avanti.