Un anno vissuto pericolosamente in casa

Capita, di questi tempi, che anche quando ci si ritrova a passeggiare nelle strade, magari nel silenzio di una domenica mattina, ci si scopra a posare gli occhi sulle case degli altri. Si intravede allora una colazione in famiglia un po’ disordinata, una libreria che sbuca tra le tende, i panni stesi al sole da una signora che corruga la fronte. Non è voler invadere l’intimità altrui, è voler capire che cosa si cela fuori dalle mura che contengono noi, ormai da un anno, con brevi e spesso confuse interruzioni che non hanno però la dignità del respiro a pieni polmoni.

Delle case, in questo ultimo anno, si è detto che le abbiamo amate e odiate, che sono state sicure e opprimenti, che le avevamo troppo piene d’oggetti o troppo prive di stimoli. L’unica cosa certa è che ci abbiamo passato molto tempo, caricandole della responsabilità di contenere tutte le attività e i ruoli che la vita ha continuato a richiedere. Siamo stati lavoratori, amici, amanti, cuochi, soli, molto soli, e stanchi, forse non necessariamente più di prima, sicuramente di una stanchezza diversa, più statica, qualcosa di simile al tedio ma carico di fatica.

Ci è stato concesso di modulare la libertà secondo la nostra personale mappa delle case.

Ci è stato concesso di modulare la libertà secondo la nostra personale mappa delle case. La residenza, il domicilio, e poi quel concetto giuridicamente debole e poco definito, l’abitazione. Ci siamo legittimamente mossi in nome delle relazioni che nelle case coltiviamo e ci è stato chiesto di avere finalmente il coraggio di autocertificarlo, che siamo fatti di molte case. Oppure finalmente sceglierne una sola, con la scusa di non poterla lasciare per futili motivi. E in questa passarci un anno della vita, imparandone a memoria le pareti, i battiscopa, il calore che emana.

In quest’ultimo caso, per vederla davvero, per parlare con un po’ di serietà di questo luogo che sa di noi più di quanto non sappia il mondo fuori, che conosce anche gli aspetti meno lusinghieri del nostro modo di stare al mondo, sempre più raffazzonato e talvolta anche nevrotico, sarebbe bene prenderne un po’ le distanze, scriverne magari dalla stanza di un hotel, pure di serie B: è sufficiente che non ci sia la cucina e la mattina, appena svegli, si sia colti da quell’istante di spaesamento tanto dolce perché tanto rimpianto.

Grazie a quella distanza si saprebbe con più lucidità tirare le fila di ciò che si è detto delle case negli ultimi mesi.

Ciò che ne ha detto Andrea Bajani, per esempio, nel suo brillante romanzo-inventario di tutte le case in cui diciamo “Io” sapendo di mentire, è che le case sono i luoghi su cui il tempo si piega a fisarmonica come a suonare una melodia, a tratti malinconica, a tratti luminosa, spesso illusa e subito disillusa. E parlano lingue che spesso capiamo in ritardo, quando ci troviamo sull’uscio, avendole ormai spogliate di tutto ciò che le rendevano dimora, senza più il calore di una cucina in cui scorre il vino nei bicchieri e si è fatto troppo tardi per lavare i patti. In quell’esitare, con gli anni di vita negli scatoloni, capiamo finalmente il lessico che usava il mobilio: la noia che esprime il ronzio del frigorifero, la rabbia in una porta che sbatte, l’accogliente scricchiolare di un tavolo di legno. Le vediamo fugacemente per ciò che sono: luoghi in cui è stato dolce e doloroso soffermarsi. Ognuna racconta qualcosa di noi e, nell’essere un insieme di frammenti di vita, ci ricordano che anche la nostra identità non può che essere fatta di molti “Io”, l’uno ostile a quello successivo, o compassionevole con quello precedente. Tutto sommato complementari, pezzi del puzzle identitario che caratterizza quest’epoca precaria in cui ci muoviamo a tentoni, o a tentoni stiamo fermi.

Ci sono case che sono solo di passaggio, dove gli oggetti sembrano poggiati, pronti ad essere portati via. Altre lo sono per sottrazione, puntando i riflettori su tutto ciò che manca. Altre ancora sono le case della maturità, dove ogni dettaglio racconta chi siamo stati e proviamo ad essere.

Quelle dell’Io di Bajani, pronome che è terza persona singolare, sono raccontate attraverso le loro planimetrie, la luce che ospitano, gli esterni su cui affacciano. Ma lo sguardo che permette, in ritardo, di coglierne l’essenza è in primo luogo posato sui rapporti che hanno visto nascere, crescere e talvolta anche consumarsi fino a morire. La casa è infatti il luogo dove più di ogni altro amiamo e siamo amati. E, ci ricorda Bajani, lo facciamo appassionatamente, stortamente e a volte ferocemente. Le case che abitiamo nel corso di una vita ospitano l’amore sotto forma di amore, di sesso e di risentimento. C’è quello quieto e quello doloroso, quello dolce e quello aspro. C’è l’illusione che ci si possa liberare dai dolori cambiando casa, salvo poi, incappando nell’ultimo romanzo di Massimo Cuomo, ricordare che in ogni caso casa è dove fa male.

Non era necessaria la pandemia, eppure è alla luce delle sue conseguenze che sappiamo riconoscere qualche ruga in più guardandoci allo specchio. Non importa l’età, importa aver sperimentato la casa come condanna. Nel condominio alla periferia di Mestre raccontato da Cuomo “i luoghi sussurrano fatti avvenuti che nessuno sa ascoltare”, e infatti vengono subiti molto più di quanto non vengono agiti.

Le vicende degli abitanti del palazzo di questa periferia fanno rabbrividire

Le sette case del palazzo a tre piani che possiamo immaginare mediocre anche nell’estetica, non si affermano come fatti fisici; si tratta piuttosto di incubatori di colpe, vizi e nevrosi, dove la planimetria non importa, importa ciò che le sfugge, contaminando i pianerottoli, gli usci, infestando ogni angolo, ogni stanza, anche la più remota e privata, come la colonia di topi che nel condominio si riproduce.

Dalla nostra condizione attuale di abitatori di casa senza scampo, le vicende degli abitanti del palazzo di questa periferia fanno rabbrividire più di quanto non riescano a far amaramente ridere. Se pure loro, a differenza nostra, dal condominio escono per lavorare, pare che dal mondo fuori non sappiano portare nulla di fresco, di nuovo e magari anche pulito, come noi ci auguriamo di poter fare presto. Tornano invece a casa per sfogarsi e dimenarsi, dimenticando il pudore che richiede l’esterno. E mentre si dimenano, dalla terra pare alzarsi quella canzone amara di Celentano —  I want to know (parte I) — che con la sua chitarra tristemente cadenzata invade la tromba delle scale, salendo gli scalini uno ad uno, insinuandosi nelle case di ognuna di queste famiglie dolenti per chiedere loro perché la gente non dice niente/ ai mister Hyde, ai dottor Jekyll/ i costruttori di questi orrori/ che senza un volto fanno le case/ dove la carie germoglia già.

Per rispondere alla severità di Celentano potremmo dire che casa è da sempre il luogo in cui è lecito stare un po’ sbracati sul divano, vizi esposti, difetti rivelati. Tuttavia, perché lo sbracato non ceda all’osceno, e questo a sua volta non culmini nel disperatamente turpe, ci vorrebbe un po’ di vita spesa altrove, un po’ di ego mitigato dall’incontro con gli altri, una giusta dose di pubblico che ridimensioni il privato. E se è vero, come scrive Cuomo, che un condominio vive solo se qualcuno ci vive, è vero anche che vivrebbe un po’ più allegramente se qualcuno, ogni tanto, ne varcasse l’androne per contaminarsi d’aria diversa.

È infatti sugli usci, sui balconi, ai confini, nei pressi delle porte e delle finestre attraverso cui il nostro privato si contagia del privato altrui, che Luca Molinari, autore dell’intelligente saggio “Le case che siamo”, suggerisce di concentrare la nostra attenzione per il futuro degli spazi che abitiamo e siamo. Le case che auspica Molinari nell’edizione ampliata pubblicata di recente, sono modellate dai costumi non più solo individuali bensì collettivi, le abitudini di ciascuno che insieme fanno le abitudini di tutti. Dalla frenesia pre-pandemica che indicava un futuro di case condivise e di passaggio e di città come “albergo diffuso di case”, la sosta forzata ci ha imposto una riflessione più profonda sul futuro dell’abitare. Ci si dovrebbe chiedere come farlo insieme, senza necessariamente farlo senza radici. Non dunque “figure neonomadiche che sentono di non appartenere a nessun luogo”, bensì figure che esigono e alimentano luoghi dove il privato si fa politico, abbattendo muri costruiti quando degli altri avevamo paura e non bisogno, mantenendo quelli che ancora ci sono necessari per preservare un’intimità veramente preziosa.

Casa e città non sono opposti, ci ricorda Molinari. Dell’una senza l’altra si può morire, perché casa è il luogo dove tornare dopo essere stati nel mondo, e non altro. Il nostro lavoro, così come il nostro svago, si nutrono dalla possibilità di muoverci, di viaggiare, di osservare, di incappare nell’estraneo che anche solo fugacemente può farsi intimo. La casa è il luogo dove l’esperienza del mondo fuori viene rielaborata, rappresentata, narrata. Per questo, come esprime bene Bajani, le case sanno raccontare chi siamo. Per questo, come nel condominio di Cuomo, in casa emergono anche le storture di una società sull’orlo di una crisi di nervi. Servirebbe un ripensamento dell’abitare, per un rinnovamento dell’essere.

Perché casa e piazza, pubblico e privato, condomino e città tornino a dialogare, aiutandoci ad elaborare una sintesi di quel sano conflitto tra ciò che viviamo fuori e ciò che custodiamo dentro, si dovrebbe ripartire dalle relazioni che fuori e dentro coltiviamo. Sulle relazioni, con gli altri e con noi stessi, fondare un rapporto meno esasperato con i luoghi che pur vedendo il peggio, non si tirano mai indietro dal poter offrire il meglio, ovvero un angolo in cui, finalmente, tirare il fiato e coltivarsi. Tra la nausea e la gratitudine, a questo punto, tendere finalmente verso la seconda, senza togliere dignità alla prima, che pure ogni tanto è necessaria per ricordare che non di sole case vive l’uomo. Ma anche che, in alternativa, una casa ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.