Borgata, periferia. Roma ha troppe case

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Perché esplodono le strade, perché si graffiano?

La periferia non è più solo l’ammasso di borgate,

quelle studiate, o ricordate, Pasolini, Ferrarotti,

studi di settore, divisione in lotti, l’edilizia popolare;

c’è invece una guardiola con passaggio a livello,

polizia condominiale, ringhiere di ferro,

l’intera vita sociale con regolamento interno,

nessun esercizio commerciale, l’olgiatizzazione

dello spazio, le villettopoli, le gated communities:

cosa resta dello sprawl urbano? Il modello Roma

veltroniano è la piazza vuota la domenica:

scorgi dietro i cancelli la gente morta o viva

come tre milioni di gatti di schroedinger, cavie

di Petroselli sottoposte a esperimenti medici.

 

L’unificazione urbana è avvenuta nel frattempo,

come un tumore che si associa alle metastasi,

i borgatari che si avvicinano ai borghesi, le borgate

al centro: il risultato degli eredi del Pci negli anni

del duemila è la città del consumo, totale, definitiva.

Trentasei centri commerciali in diciannove centralità:

i palazzinari hanno comprato gli spazi e i giorni,

i palazzinari sono ora i santi dei nuovi calendari,

come le famiglie dei papi nel barocco, Torlonia,

Barberini: gli Scarpellini, i Toti, i Parnasi, i Caltagirone,

l’amichevole segregazione di Ponte di Nona,

la città regalata ai costruttori e al “pianificar facendo”:

appartamenti a Porta di Roma che erano uffici

cambiati di destinazione d’uso perché Mezzaroma

previdente aveva fatto i tetti troppo bassi,

la speculazione immobiliare come vocazione

per chi esce dall’istruzione superiore. Costruisci

o muori. Milleduecento zingari a via di Salone.

I campi rom come modello di integrazione.

Parco Leonardo come idea di città. Caltagirone

lo presenta così: «un articolato intervento di sviluppo

edilizio riconducibile a un sistema integrato

che comprende le funzioni residenziale,

commerciale, direzionale e di intrattenimento.

Il concetto di città del futuro inteso come premessa

di uno stile di vita atto a superare le molte

contraddizioni di una metropoli come Roma,

che si è evoluta senza risolvere i problemi». Le vie

del Signore sono piccole, strette, senza manutenzione,

e accanto alla “città del futuro”, il Cie: la reclusione

in gabbie nascoste, recintate e tenute tra loro

da una tessitura di ferro saldata a pezzi di caserme

che galleggiano sulla Portuense: il centro commerciale

più grande d’Europa e il centro di identificazione

ed espulsione più grande del pianeta. Dal 1999

tutto in funzione, senza scale mobili, con le colonne

di ferro che arrivano a sei metri d’altezza, ogni tanto

un migrante si cuce la bocca, come fosse un rito

antico da tramandare a una nuova comunità.

 

Se fuori c’è la guerra, immaginata o vera, la città

diventerà la patria dei campi e dei divieti, parcheggi

a pagamento, zone transennate, telecamere

a circuito chiuso: nel medioevo prossimo venturo,

un nuovo incastellamento, consorzi, condomìni,

Marco Simone, Torre Gaia, tessere elettroniche

per entrare e uscire, codici al citofono: la postmetropoli

è fatta di appartenenze, se l’ordine è per il nichilismo

un terreno fertile che esso rimodella per i propri fini.

 

E il centro è un centro commerciale solo più distante,

impossibile arrivarci, alieno, remoto, stancante,

scomodo rispetto ai competitori periferici pieni

di sterminati parcheggi multipiano, ikee platoniche,

meraviglie postumane. Il modello Roma trova

nel campo culturale la sua espressione pura

per la gestione del potere, nel quindicennio

bettinian-lettiano, la pax veltroniana ha una faccia

doppia: quella dura addomestica il conflitto

sociale, quella liquida confonde la città,

in un vortice di fondali che cambiano a tutta

velocità, notte bianche, Nuvole, feste del cinema,

tappeti rossi con le gomme appiccicate. Smaltito

l’incantesimo, a terra resta una colata di cemento

di settanta milioni di metri cubi, il potere

dell’inferno, una foresta di soli lupi che hanno

finito le prede e sono pronti per sbranarsi.

E intorno, lontano dalle strisce blu, la colonia

che la città fa di se stessa, la guerra civile permanente,

desocializzazione, enclavi, consumo come unica

chance dell’esistente, e il territorio come pratica

di libertà estrema: cittadini che non chiedono

diritti, ma anomia, pura libertà senza impedimenti:

sterminata, hobbesiana, inguarita, periferia urbana.

 

Il sistema politico, centrosinistra in testa, l’ha pensata

sempre come un problema di ordine economico

(disoccupazione) o pubblico (devianza) o assistenziale

(marginalità), gli ha dato questo nome orwelliano: nuove

centralità. Eppure in questi agglomerati, che deridono

l’idea di novità, come edere che strisciano sui roveri

millenari, singoli individui di classi eterogenee

hanno preso l’unico pezzo rimasto; il diritto alla città

come la fame. Perché lo spazio è cibo, è un mezzo

di produzione, e la gerarchia degli spazi corrisponde

a quella dei rapporti di produzione. Lo spazio

crea plusvalore: l’aria il suolo anche la luce

o la monnezza sono forze produttive e prodotti.

Tutto fa, tutto produce, persino la distanza tra i luoghi,

i rapporti tra centro e periferia studiati nei convegni

di urbanistica sono un prodotto da piazzare quando

hai finito di smerciare i loft riattati del centro, le case

popolari riscattate, il rendering della riqualificazione,

l’urbanistica ancella del formalismo degli architetti,

che si vendono a chi li chiama a ratificare scelte

più grandi prese in altre sedi: quest’urbanistica, espropriata –

come una terra dell’Inghilterra del settecento

dai levellers – del suo carattere riformista: diventata

pura tecnica gestita dagli esperti; il dieci per cento

di diritti di agenzia come professione politica,

un marchio per garantire la riuscita dell’evento.

 

Si sa, Roma è una città con troppe case, palazzi

e palazzine, condomìni ripittati, rigriffati dalla street art,

ristrutturati, raccolti in un dossier di qualche ex

addetto all’edilizia sociale che si è riconvertito

alla negoziazione immobiliare, investimenti

per le banche, in crisi creativa da finanza creativa,

appartamenti e stanze mantenute vuote per pompare

la domanda e tenere la città eterna in eterna

emergenza abitativa. Sfrattati in auto da fè

o nude proprietà e airbnb: speculazione su di sé,

la propria vita messa a valore, il proprio spazio,

la speculazione degli affitti dei lumpenproletari

che si credono ceto medio impoverito; dato che

i vecchi ammontano a un terzo della popolazione,

va elemosinata una stanza a casa dei nonni,

scommettendo su una morte da infarto per potersi

permettere un morbido ritorno dall’Erasmus.

 

Oppure, puoi sperare che nelle strisce delle terre

di nessuno, fra due posti di controllo, ci sia sempre

una zona di promesse, desideri che non somigliano

a se stessi ma a progetti: sulla direttrice Tiburtina,

prima di Guidonia, le occupazioni dei movimenti

che non dicono soltanto diritto alla casa e all’abitare,

ma santa pace, sò stanco, do cazzo annamo, prenni

na birretta al bengalino all’angolo, la vita nella forma

che ora non c’è ma verrà; insieme ad altro, i movimenti,

quelli dei sindacati sicobas, ubs, indipendenti:

il territorio che ritorna un luogo, un posto del calore.

Riempire lo spazio urbano, colmare il vuoto con le lotte,

lotte per la casa e lotte per le condizioni di lavoro:

relazione tra persone, legame con il territorio, Roma.